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Grazie filmscoop! Il mio libro di cinema.

Pubblicato il 25/09/2013 10:28:18 da Stefano Santoli
Caro Filmscoop.it,

lo scorso luglio ho coronato un piccolo sogno. Ho pubblicato un libro. Il mio primo libro di cinema.

Nel libro ho raccolto, rimaneggiandoli giusto un po’, vari scritti (articoli? “saggi”? recensioni?) su singoli film, tra cui gran parte sono alcune “recensioni” pubblicate fino al 2011 proprio su Filmscoop.
Mi sono accorto che, senza volerlo, alcuni mie recensioni si rimandavano fra loro, per temi, argomenti, fissazioni. E’ stato così che ho pensato di raccogliere gli scritti ordinandoli proprio sulla base di alcune tematiche che ricorrevano con una certa insistenza. Il concetto di libertà; quello di “femminino”; il contrasto tra “natura” e “civilizzazione”.
Un’altra sezione del libro l’ho intitolata “pellicole allo specchio”. Sono coppie di film che si fronteggiano, secondo un’assonanza che a volte – lo riconosco – può essere stravagante. E’ stata la sezione in cui mi sono sbizzarrito di più. Ad esempio, cosa possono avere in comune “La samaritana” di Kim Ki Duk, con “In un mondo migliore” di Susanne Bier? Oppure “Il vangelo secondo Matteo” di Pasolini e “Habemus Papam” di Nanni Moretti? A parte il fatto di essere tutti film recensiti da me su questo sito, dico. Be’, che dirvi: potrete scoprirlo solo leggendo il mio libro.

Si chiama “Lo schermo e il taccuino”.
Per la copertina, mi è venuta in mente una specie di fantasia escheriana. Volevo rendere l’idea che, scrivendo e descrivendo film, è un po’ il cinema stesso che, attraverso una penna (la mia, in questo caso), scrive di sé, su di sé.



Spero di aver reso l’idea.

Qui, potrete scoprire come è strutturato il libro, dando una scorsa all’indice. E, se vi va, allo stesso link è possibile leggere pure (oltre a parte della mia introduzione) la prefazione scritta da Carlo Montanaro, che ringrazio per le sue parole, troppo generose.

Qui, invece, se proprio siete così matti da pensare di farlo, potreste sempre togliervi lo sfizio di acquistarne una copia online.

Questo,infine, è il ringraziamento - sincero - che compare, fra gli altri, in fondo al libro:

Grazie alla redazione e agli “amici” di Filmscoop.it, che condividono la comune passione, nell’entusiasmo costante rinvigorito dal confronto, dallo scambio di idee, dallo spirito critico e dall’amore per la più eclettica fra le arti. Senza Filmscoop.it, la maggior parte dei brani ora raccolti in questo volume non avrebbe visto la luce.

Grazie a tutti davvero.
Ciao!

Stefano

L’anima attesa: mediometraggio low cost

Pubblicato il 13/06/2013 13:31:17 da peucezia



Edoardo Winspeare, regista salentino dal cognome british, si è fatto conoscere per le sue storie ambientate perlopiù in Salento, di grande afflato e con interpreti di peso nel nostro attuale panorama filmico (vedasi Gifuni, Beppe Fiorello e Donatella Finocchiaro in Galantuomini).
Nel 2012 il nostro ha voluto realizzare un ambizioso progetto: un mediometraggio (lunghezza di circa 40 minuti) da distribuire gratuitamente o da acquistare in dvd nelle librerie, nelle edicole e nei luoghi preposti, dedicato alla memoria di un vescovo pugliese che ha fatto parlare di sè e che ci ha lasciato prematuramente a causa di un male che non perdona nell'aprile del 1993: don Tonino Bello, vescovo di Molfetta.
Il minifilm (dal titolo "L'anima attesa") è ambientato in Puglia tra Molfetta ed Alessano, dove il vescovo è nato e dove riposa in eterno.
Gli interpreti sono assolutamente sconosciuti con l'intervento di molti attori estemporanei, ma il risultato è assolutamente sorprendente.
Con pochi tocchi il regista è riuscito a creare un film che fa riflettere e che non ha nulla da invidiare a lavori realizzati con costi decisamente più elevati.
Winspeare ha promosso una campagna di adozione di ogni singolo fotogramma facendo così finanziare il film che alla fine è un esempio valido di cinematografia di discreta qualità e low cost.
Potrebbe essere un buono spunto per avviare i giovani cineasti al mercato più vasto senza passare dalle forche caudine di richieste di finanziamento e liberi dalle varie film commission che proliferano?

Categorie: Generi corto, Cinema registi, Cinema approfondimenti

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The Lords of Salem

Pubblicato il 02/05/2013 10:37:08 da L.P.


Ecco fatto. Dopo anni di dubbi laceranti, infuocati dibattiti e angosce esistenziali, possiamo finalmente giungere a una conclusione: Rob Zombie è una bufala. Amen e così sia. Quello che molti ancora si ostinano a spacciare per un autore coraggioso, investito del compito di riportare in auge il cinema dell'orrore duro, puro e senza compromessi, è in realtà un adolescente strafatto in tempesta ormonale che gira un'ora a trentasei minuti di immagini sconnesse il cui unico senso di esistere è il culo della moglie. Bravo lui. E bravo un sistema di fan che gli ha perdonato tutto, solo perché ci ha dato l'illusione con La casa del diavolo, di rinverdire i fasti del cinema da battaglia degli anni '70.
Ah, sì, quel cinema è morto e sepolto, se qualcuno non se ne fosse accorto. Esistono cosette da niente come il contesto storico che gli remano un po' contro. E va bene, un film così all'insegna della nostalgia canaglia ci può stare. Ma da lì a voler pretendere di essere classificato come autore, quando non hai neanche la più pallida idea di cosa significhi mettere in scena una storia, ci passa in mezzo un oceano.

Io non riesco più a capire dove stia andando l'horror in questo periodo. Mi trovo spiazzata. E soprattutto non capisco cosa cercano gli appassionati, perché se una cosetta amatoriale da quindicenne metallaro con cinquantasei birre in corpo solleva un polverone tale, allora davvero, la devo smettere di scrivere e vedere film. Che poi i metallari son persone serie. Si sentirebbero offesi loro per primi da The Lords of Salem.
Il mio amico Max, cura ogni settimana sul suo blog dedicato al metal una rubrica divertentissima chiamata The Gallery, in cui mette alla berlina le peggiori copertine dei dischi. Ecco, The Lord of Salem è una specie di Gallery in movimento, con tutta la simbologia più becera e abusata, la mancanza di originalità che vuol passare come arte visionaria, e un paio di vaccatelle wannabe blasfeme a cui piacerebbe tanto scandalizzare.
E ovviamente, non scandalizza neppure la buonanima di mia nonna, che al massimo verrebbe colta da catalessi immediata.



Ma di che parla codesto gioiello che è uno dei punti più alti mai raggiunti nella istoria del cinema tutto?
Di un disco maledetto.
Sì, un disco maledetto (oltretutto, Rob, sei musicista, ma sforzati almeno di far uscire da quel cazzo di vinile una nenia decente) e una DJ (Sheri Moon) che viene posseduta da questa musica satanica che le fa fare le brutte cose, tipo cavalcare un caprone, o attaccare il telefono in faccia al fidanzato. La cosa peggiore è che ha le visioni con pacchianissimi crocifissi al neon, dietro cui si nasconde uno yeti. Ancora più tragico, è circuita da tre vecchiette sotto anfetamine (Judy Geeson, Dee Wallace, Patricia Quinn) che in realtà sono streghe e, attraverso il culo di Sheri Moon, intendono riportare in vita l'antico culto dei Signori di Salem. Detta così sembra una stronzata. Ma non fatevi ingannare, è anche peggio di come si presenta.

Rob Zombie è un regista rozzo. Non è dotato di tecnica, non è in grado di dare ai suoi film uno stile preciso. Si arrabatta tra il videoclip e il plagio più o meno consapevole dei mezzi espressivi in voga negli anni '70. Quindi irrimediabilmente datati. Però, almeno per il suo esordio e soprattutto per La Casa del Diavolo, ha dimostrato di possedere una qualità tutta particolare: amore e trasporto sinceri nei confronti della marmaglia di rifiuti umani di cui narrava le gesta. E sembrava che questo fosse il fulcro della sua poetica, se di poetica è lecito parlare. E invece no. Era una presa per i fondelli anche quella.
Perché con The Lords of Salem Zombie abbandona del tutto la prospettiva del regista reietto e rudimentale che parla di reietti e ce li fa sentire vicini, per atteggiarsi a sofisticato autore che strizza l'occhio a gente come Russel e Jodorowsky. Per tacere dei riferimenti continui a Fulci che non lo devi toccare e non lo devi neanche nominare.
E Zombie, gli strumenti per padroneggiare la poesia lisergica e visionaria di certi grandi maestri non li ha. Non c'è niente da fare. Pretende di mettersi a giocare sul loro stesso terreno, gioca coi simboli e con le immagini subliminali, non si spreca neanche a scrivere una storia, perché tanto i veri autori non ne hanno bisogno. E fallisce in maniera così clamorosa che già dopo i dieci minuti di film ti verrebbe voglia di farlo sedere all'ultimo banco della classe con le orecchie d'asino in testa e sequestrargli il lettore mp3 coi Velvet Underground. Tanto non li capisce.



Però, il caro Rob sa benissimo cosa vogliono da lui i fan adoranti: la citazione che ti fa sentire colto e all'avanguardia, la parata di vecchie glorie da riconoscere per dar di gomito all'amico nerd e dirgli: "oh, guarda, c'è Meg Foster invecchiata di merda", un paio di inquadrature sbilenche, paccottiglia religiosa da negozio di souvenir a San Pietro e un finale in cui il regista e sceneggiatore si erge in pieno delirio di onnipotenza e pretende di realizzare una sequenza disturbante e allucinata. Sì, con quattro dildi rossi, il solito caprone e la solita Sheri Moon acchittata come la madonna. Ma colori acidi, mi raccomando, che ci scrivono sopra sette trattati. Siamo provocatori noi, andiamo contro le convenzioni e facciamo la gioia dei satanisti della domenica all'oratorio.

Non è tanto il fatto di essere arrivati fuori tempo massimo, o di usare un immaginario e una simbologia che andavano bene trent'anni fa. Il problema sta altrove, nella paraculaggine senza pudore che sottende a un'operazione del genere. E nel dilettantismo con cui la si affronta, consci del fatto che tanto il pubblico potrebbe bersi anche una compilation di rutti se fosse a firma Rob Zombie. Saper di godere di credito illimitato e giocarci sopra, atteggiandosi anche a ultimo baluardo del cinema indipendente in un mondo di venduti. L'idea che solo una setta di eletti e profondi conoscitori del genere può arrivare a comprendere un film di questo tipo. E tutti gli altri sono traditori.



E non rendersi conto che The Lords of Salem non è cinema, ma il rigurgito narcisista e masturbatorio di un incompetente che ha azzeccato un solo film in carriera per un formidabile colpo di fortuna. Recitato da un branco di cani arrabbiati, diretti come se fossero la filodrammatica della parrocchia dietro casa e con una protagonista che, bel posteriore a parte, non ha la capacità di caricarsi sulle spalle un film intero, come il marito vorrebbe che facesse.
The Lords of Salem è un insulto all'intelligenza, un insulto al gusto estetico e un insulto al cinema. Perché autori non ci si improvvisa. E se penso che questa betoniera carica di merda è distribuita in sala da noi, mentre Ti West e Lucky McKee a stento trovano uno sbocco in home video, mi metto a piangere.
Non dategli i vostri soldi.

Categorie: Generi horror, Cinema in uscita, Cinema registi

Commenti: 4, ultimo il 03/05/2013 alle 01.15.00 - Inserisci un commento

Un grande distruttore della ragione

Pubblicato il 28/02/2013 10:26:14 da amterme63


Il cinema è arte e l'arte è l'espressione diretta dell'universo spirituale umano. Certi film, certi registi riescono a esprimere stati d'animo collettivi meglio di trattati o di conferenze. Lynch e la sua filmografia occupano uno dei posti di rilievo in quella corrente artistica, sorta soprattutto dagli anni '70 in poi, che esprime sentimento di smarrimento, incertezza, perdita di punti di riferimento, paura e instabilità. Tutto questo semplicemente usando il potere illusorio ed evocativo che possiede l'immagine filmata su pellicola. La tecnica artistica usata da Lynch, soprattutto in alcuni film, è fra le più originali ed estreme, allo stesso tempo semplice e complessa, senz'altro unica e irripetibile.

Lo si vede subito guardando le prime opere del regista: i cortometraggi "The Alphabet" e soprattutto "The Grandmother". Sono opere povere, scarne, non parlate (semplici appunto) ma molto suggestive, grazie alla stranezza, all'originale visionarietà e alla fantasia di stampo inquietante e onirico di tutte le scene (quindi molto complesse). La quasi totale mancanza di nessi logici è compensata dalla forte suggestione evocativa e simbolica delle immagini. Come in quasi tutte le opere d'arte moderna, è compito dello spettatore riflettere e trovare all'interno della propria sensibilità le tracce emotive lasciate dall'esperienza estetica.



Il coronamento di questa prima fase "sperimentale" è il lungometraggio "Eraserhead", uno dei capolavori del cinema cosiddetto "d'avanguardia". Anche "Eraserhead" è un film scarno, semplice, senza nessuna pretesa di bellezza o fascino visivo; anzi stride per il degrado e l'inospitalità dell'ambientazione, la povertà materiale ed umana ritratta, l'irrompere del mostruoso, dell'inquietante e del destabilizzante. Tutta la pellicola, dall'inizio alla fine, è pervasa da un disagio angoscioso che si taglia con il coltello. Realtà, sogno, desideri, incubi, angosce, sensi di colpa si mescolano in una miscela amara e disturbante.
Il rimosso umano si prende la sua rivincita artistica e diventa padrone, mostrando l'altra faccia di noi stessi, quella insicura, debole, angosciata.

Dopo quest'opera estrema Lynch si cimenta con il cinema cosiddetto "mainstream". Lo fa con grande mestiere e perizia tecnica, senza rinunciare però ad alludere al mondo oscuro e nascosto che si cela dietro l'apparente ordine della "normalità". Nel suo capolavoro "The Elephant Man" l'orribile non è rappresentato dalle menomazioni fisiche del protagonista, ma dalla cattiveria e dal vizio che si celano dietro i fisicamente normali. Nell'opera successiva, il kolossal film di formazione "Dune", appare per la prima volta un personaggio completamente "negativo" (il barone Vladimir Harkonnen), primo grezzo esempio di quel "male", di quella parte bestiale, violenta e pervertita che da ora in poi abiterà spesso i film di Lynch.

"Velluto blu" infatti è la prima opera che tratta del sottile e pericolo fascino che ha l'oscuro, il violento e lo sconosciuto sulla psiche dei cosiddetti "normali". Una coppia di giovani perbene, appartenenti alla classe media, è come presa dalla smania di sapere, conoscere, vivere quella parte violenta, perversa e cattiva che abita, vive e prospera dietro le belle facciate e l'ordine apparente. E' un fascino sottile e irresistibile che mostra quanto sia debole la ragione e come possa essere facilmente "macchiata", se non stravolta.



Inganno delle apparenze, fascino destabilizzante del male sono la colonna portante del serial televisivo "Twin Peaks", nonché del suo prequel "Fuoco cammina con me". Le vicende e il destino finale del personaggio di Cooper (la quintessenza della "ragione") sono indicative del fascino irresistibile e fagocitante che ha l'irrazionale e di come questo riesca facilmente a distruggere, a destabilizzare anche chi si crede forte e senza paura.
Male e bene da aspetti caratteriali e individuali si fanno sempre di più nei film di Lynch sostanza spirituale, onirica, quasi metafisica, e sempre di più tendono a confondersi fra di loro, ad essere quasi indistinguibili l'uno con l'altro. I protagonisti di "Cuore selvaggio" non sono degli stinchi di santo, ma del resto intorno a loro non trovano niente di positivo che li possa salvare o rendere felici; deve intervenire addirittura qualcosa di "magico" e metafisico a "salvarli".

Comunque è con "Strade perdute" che si apre l'ultima parte del percorso artistico di Lynch, quella in cui si cerca di arrivare all'essenza del mondo umano, sia in positivo che in negativo. In "Strade perdute" si certifica per la prima volta la perdita della cognizione certa e sicura del reale, si apre la strada alla crisi del concetto di identità, si constata la facilità con cui si cede agli istinti distruttivi. Il reale e l'onirico si mescolano, si interdigitano, concorrono a creare un quadro generale di continua insicurezza e angoscia, da cui non è più possibile uscire.

In mezzo a queste visioni desolanti del mondo umano, Lynch è come se si fosse improvvisamente fermato ad esaminare invece ciò che potrebbe esistere di sano e positivo nel mondo umano, l'essenza che lo potrebbe tenere unito. Ne è venuta fuori quell'opera dimessa e profondissima che è "Una storia vera", in cui si individua nel semplice, nel naturale, nel piccolo e nel modesto il valore vero e supremo della coesistenza umana.



E' stato però solo un lampo. Subito ritorna il buio, il buio sempre più fitto dello smarrimento e della perdita delle certezze e dei punti di riferimento "razionali". "Mulholland Drive" è una raffinatissima opera di decostruzione della percezione di reale e di immaginato, di vero e di falso, di bene e di male. Ancora più che in "Strade perdute" si fa fatica a distinguere l'uno dall'altro, tanto più che Lynch attribuisce alla parte "sognata" la varietà, la spigliatezza, l'ironia e la verve che in genere sperimentiamo da svegli; mentre la parte che corrisponderebbe al "reale" appare grigia, cupa, degradata e angosciosa. L'inconscio ci condiziona più di quanto immaginiamo e rischia addirittura di mescolarsi e sostituirsi a ciò che noi riteniamo reale.

Ed è quello che accadrà nell'ultima opera di Lynch, una delle vette artistiche del cinema degli ultimi anni. Fino ad ora era sempre la parte razionale e reale (distinta e riconoscibile) che evocava la parte inconscia e onirica (rimanendone travolta), con "INLAND EMPIRE" Lynch va oltre: supera del tutto la fondamentale distinzione percettiva umana fra reale e immaginato, per creare qualcosa di completamente nuovo e mai concepito prima. Ne viene fuori un flusso di coscienza all'apparenza caotico, ma in realtà stringente, terribilmente umano nella sua emotività angosciata e angosciante.
"INLAND EMPIRE" è un ambizioso esperimento artistico di portata epocale, un'opera radicalmente nuova, il punto di arrivo di un percorso di ricerca artistica espressiva originale che mira a fondere conscio e subconscio, realtà e sogno, in una nuova sostanza spirituale, destinata forse ad abitare gli animi umani nei secoli a venire.

Categorie: Cinema registi

Commenti: 15, ultimo il 04/03/2013 alle 10.47.06 - Inserisci un commento

Perché non Affleck?

Pubblicato il 30/01/2013 10:47:14 da The Gaunt


Ben "c'ho solo 'na faccia" Affleck. Sulle sue capacità recitative molti hanno mostrato più di una perplessità, che non sono mai svanite malgrado una Coppa Volpi vinta al Festival di Venezia per Hollywoodland. Forse un po' generosa, ma tutto sommato rimane probabilmente la sua migliore intepretazione della carriera.
Altro discorso, opposto al Ben Affleck davanti alla macchina da presa, è il Ben Affleck dietro la macchina da presa. Con Argo, che rappresenta il suo film più compiuto, egli è bravissimo nelle vesti di sceneggiatore, di regista e finalmente anche di attore (in questo caso perfettamente funzionale al ruolo di agente segreto, quindi meno lascia trasparire espressioni sul viso meglio è). Bravura che quest'anno ad Affleck è valsa la candidatura all'Oscar sia per la sceneggiatura (già vinto nel 1998 insieme all'amico Matt Damon per Will Hunting) che nella categoria di “miglior film”.



Argo in questo suo richiamo al cinema (fanta)politico degli anni settanta, che ha sfornato delle signore pellicole, potrebbe rappresentare il giusto compromesso che non farebbe certo gridare allo scandalo una sua eventuale vittoria. Un film molto teso e coivolgente che offre inoltre una riuscita miscela fra storia e fiction, sulla capacità del cinema di far sognare e ingannare.
Un film che unisce un intrattenimento intelligente e non poche stoccate ad un certo modo di fare politica estera del governo americano.
Da considerare inoltre che ha fatto trovare d'accordo sia la critica che il pubblico, cosa non da poco e tutt'altro che frequente. Forse il compromesso è troppo soddisfacente (ammesso che lo sia) per premiarlo?

Categorie: Festival Academy Awards, Cinema registi, Cinema attori

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