Recensione prince of persia: le sabbie del tempo regia di Mike Newell USA 2010
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Recensione prince of persia: le sabbie del tempo (2010)

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locandina del film PRINCE OF PERSIA: LE SABBIE DEL TEMPO

Immagine tratta dal film PRINCE OF PERSIA: LE SABBIE DEL TEMPO

Immagine tratta dal film PRINCE OF PERSIA: LE SABBIE DEL TEMPO

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Persia, VI secolo. Cresciuto orfano, il piccolo Dastan viene scelto dal re di Persia ad entrare a far parte della famiglia reale per essersi distinto nel coraggio e nella nobiltà d'animo. Una volta adulto, la sua vita viene sconvolta dalla perdita del padre adottivo, per il cui assassinio Dastan viene ingiustamente accusato e costretto alla latitanza; con lui la principessa Tamina di Alamut, insieme alla quale si ritroverà a dover proteggere dallo zio Nazim un oggetto dai mistici poteri, un pugnale capace di riavvolgere il tempo grazie al potere delle sabbie del tempo.

Figlio dell'omonimo e celebre gioco di ruolo, creato 20 anni fa dal Game Designer Jordan Mechner e diventato una vera e propria pietra miliare nell'universo dei videogame, "Prince of Persia- Le sabbie del tempo" trae ispirazione dalla versione targata 2003, più precisamente dal primo capitolo del reboot concepito per le macchine moderne. Sfida interessante, visto e considerato lo scarso interesse che gli adattamenti cinematografici da videogioco hanno riscosso al botteghino nei loro passaggi sul grande schermo; da sottolineare il fatto, però, che tutti i precedenti tentativi sono frutto di budget non particolarmente generosi, cui si aggiunge il mancato coinvolgimento di nomi importanti e dall'appeal invitante: non è un caso se ad oggi il miglior risultato a livello economico sia stato "Tomb Raider" che vedeva il coinvolgimento di star quali Angelina Jolie e Jon Voight. E chi poteva cimentarsi nell'impresa di sfatare questo tabù, se non il re Mida dei produttori Hollywoodiani, quel Jerry Bruckheimer "padre" di successi quali "Flashdance", "Beverly Hills Cop", "Armageddon", "Pearl Harbour", "Black Hawk Down", "Il mistero dei templari", fino al più redditizio di tutti, ossia la saga di "Pirati dei Caraibi". Ecco dunque il marchio Disney fargli da partner, con il valore aggiunto rappresentato dal budget "generoso" e da un cast che in quanto ad appeal non scherza: l'ex cowboy gay Jake Gyllenhaal e la splendida perla britannica Gemma Arterton, oltre a due maestri quali Sir Ben Kinsley e Alfred Molina.

Si rinnova dunque l'alleanza tra la Disney e il mega produttore Bruckheimer dopo i già citati "Pirati dei Caraibi" e "National Treasure", sodalizio che ha dato vita ad un quanto mai redditizio mix che vede intrecciarsi con sapiente furbizia elementi fiabeschi e innesti adrenalinici. Tutto questo è presente anche nella pellicola di Mike Newell ("Quattro matrimoni e un funerale", "Donnie Brasco" e "Harry Potter e il calice di fuoco"), purtroppo però si ha come l'impressione che manchi la giusta amalgama che potrebbe far fare al film quel salto di qualità che invece non c'è, danneggiando pesantemente l'"entertainment". Visto il produttore in comune (che nella locandina viene annunciato in pompa magna, quasi fosse il vero regista del film) con la saga dei "Pirati dei Caraibi", pare quanto mai scontato e inevitabile fare un parallelo tra la star di quei film e quella della pellicola di Mike Newell, perché forse la chiave di lettura sta, almeno parzialmente, lì.
La serie piratesca aveva infatti dalla sua il carismatico capitan Jack Sparrow alias Johnny Depp, mentre qui troviamo un Jake Gyllenhaal per la prima volta impegnato in un ruolo action-fantasy: se nella trilogia dei "Pirati" ogni mancanza a livello di sceneggiatura era prontamente oscurata dal personaggio di Depp che da solo reggeva il film, calamitando l'attenzione del pubblico tutto, facendo di fatto passare in secondo piano certe scelte decisamente opinabili, in "Prince of Persia" le cose stanno diversamente, nel senso che Gyllenhaal, per quanto bravo sia, non ha lo stesso carisma di Depp e dunque le pecche, che ci sono, si vedono e si notano tutte. C'è da dire che la scelta per il ruolo del protagonista aveva coinvolto anche il britannico Orlando Bloom, guarda caso anche lui presente in "Pirati dei Caraibi", e che quindi la decisione di affidare il ruolo del principe furfante Dastan a Gyllenhaal appare la più sensata possibile, in quanto Bloom non si distingue particolarmente per doti carismatiche (vedi "Le Crociate").

Oltre al livello carismatico del protagonista, pesa sulle sorti del film, e non poco, una certa mancanza di omogeneità tra le varie sequenze, a tratti piuttosto confuse, di certo non aiutate da un montaggio tutt'altro che impeccabile, cosa che spiazza, confonde e a tratti annoia lo spettatore, che invano attende un raddrizzamento delle cose che però si intravede solo sul finale e neanche tanto in maniera convincente. Insomma, si viene a creare una certa confusione, con un continuo ribaltamento delle vicende che alla lunga stufa; un esempio su tutti: all'inizio del loro viaggio, il protagonista Dastan e la principessa Tamina non fanno altro che "darsi battaglia" per il possesso del pugnale, rubandoselo continuamente a vicenda, e la cosa ci può anche stare, ma nella sceneggiatura tale alternarsi è previsto almeno cinque volte, quasi si volesse riempire uno script altrimenti povero ed avaro di idee, cui si aggiunge una regia, quella di Mike Newell, appunto, troppo spesso ridondante, incapace di gestire e sfruttare a dovere le innumerevoli scene d'azione ereditate dal gioco, dilatando tutto a sproposito. Manca poi il pathos, imperdonabile in un film di questo genere.
Non aiutati dalla sceneggiatura, i protagonisti fanno il possibile, riuscendo però solo a tratti a risultare sufficientemente convincenti e trascinanti. Carisma a parte, Gyllenhaal fa comunque una discreta figura, risultando anche efficace grazie al suo fare guascone e scanzonato, mentre la spalla Gemma Arterton si cala nei panni della "bisbetica domata"con qualche "black out" di troppo, tanto che a tratti pare proprio spaesata; per quanto riguarda i due comprimari di lusso, ossia il premio Oscar Ben Kingsley e Alfred Molina, c'è da registrare l'ennesima riproposizione del villain ambiguo, senza aggiunta alcuna, per il protagonista di "Gandhi", mentre al secondo spetta il compito di stemperare il clima, con un personaggio che senza dubbio poteva dire molto di più e che invece è stato ridotto al mero ruolo di macchietta.

Positivo è il lavoro fatto sulle scenografie, che giustificano le dimensioni di tale produzione, così come merita di essere citata la colonna sonora di Henry Gregson-Williams (autore anche delle musiche di alcuni titoli del videogioco "Metal Gear"), capace di rievocare le sonorità e le atmosfere tipiche dei paesi arabi, impreziosita dalla traccia scritta dalla canadese Alanis Morrisette "I Remain". Buona anche la fotografia aiutata da locations, quelle si, da Oscar.

Insomma le premesse c'erano tutte, una confezione invitante, nomi dall'indiscutibile appeal, humour e romanticismo, eppure vedendo "Prince of Persia" l'amarezza per ciò che poteva essere e invece non è stato rimane, perché la sensazione è che ci si trovi di fronte ad un prodotto a metà, ad una occasione brutalmente gettata al vento, causa una scarsa oculatezza nello sfruttamento di un materiale dalle potenzialità non indifferenti. Non resta dunque che attendere il sequel, che appare quanto mai scontato, e sperare che l'esperienza acquisita con questo primo capitolo possa servire a cancellarne il ricordo.

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Recensione a cura di Luke07 - aggiornata al 01/06/2010

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