Recensione viaggio all'inizio del mondo regia di Manoel De Oliveira Portogallo, Francia 1997
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Recensione viaggio all'inizio del mondo (1997)

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locandina del film VIAGGIO ALL'INIZIO DEL MONDO

Immagine tratta dal film VIAGGIO ALL'INIZIO DEL MONDO

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In un giorno di pausa durante la lavorazione di un film, un anziano regista (che si chiama Manoel, come De Oliveira, ed è interpretato da Marcello Mastroianni) è in viaggio, insieme ai suoi attori, verso il paese d'origine del padre di uno di essi, Afonso (interpretato da Jean-Yves Gautier).
Li accompagnano Duarte (Diogo Doria) e Judite (Leonor Silveira), due tra i volti più ricorrenti nel cinema di De Oliveira. Ad essi è affidato principalmente il ruolo di spettatori. Il conducente della vettura, che non si vede mai, è interpretato – in una trasparente metafora – dallo stesso regista del film, Manoel De Oliveira.

Il viaggio in auto è costituito da una serie di tappe in luoghi della giovinezza di Manoel. La meta finale, invece, è uno sperduto paesino rupestre, in una remota regione montuosa dove il Portogallo confina con la Spagna. Afonso non c'è mai stato. Ma è lì che è nato suo padre, ed è lì che questi ha vissuto da ragazzo, prima di scomparire al di là delle montagne e farsi una vita all'estero, in Francia. Afonso è infatti francese, e ora giunge per la prima volta in questo paesino, mosso dalla curiosità di conoscere il luogo da dove fuggì il padre.
In questo paesino, Afonso farà la conoscenza di una vecchia zia che non ne è mai uscita (interpretata da un'attrice veramente straordinaria, Isabel de Castro). Nell'iniziale diffidenza di lei, si farà strada una graduale, sempre più profonda commozione.
Lo spunto da cui trae origine il film (la vicenda dell'attore Jean-Yves Gautier) è reale.

L'ultimo film di Mastroianni

"Viaggio all'inizio del mondo" è l'ultimo film interpretato da uno dei maggiori attori del cinema italiano. Quest'opera non è attualmente disponibile sul mercato dell'home video. Non ne è mai stata curata, in Europa, una edizione in dvd. La dimenticanza è clamorosa al di là della valutazione soggettiva dell'opera (per chi scrive si tratta di un capolavoro).
Il film non è mai stato nemmeno doppiato in italiano: le rare versioni disponibili (in noleggio su vecchi vhs presso alcune cineteche) sono sottotitolate. L'assenza di doppiaggio non è un male, giacché il film è recitato in due lingue – il francese e il portoghese – e come vedremo il motivo della lingua è essenziale. Tuttavia la scelta di lasciare il film in lingua originale si rese inevitabile, perché Mastroianni (che recita in francese) morì prima di potersi doppiare in italiano.

Commerciale non è nessun film del maestro portoghese: eppure tutti i suoi film recenti vengono editi in dvd, dopo una più o meno fugace distribuzione in sala. Quanti invece uscirono in vhs prima che si diffondesse il dvd, sono oggi praticamente irrecuperabili.
"Viaggio all'inizio del mondo", che è tra i risultati più alti di De Oliveira, è attualmente introvabile, e sconosciuto ai più.
Per noi in Italia ciò risulta ancora più grave e inspiegabile, visto che uno dei suoi protagonisti è interpretato da Mastroianni, nella sua ultima apparizione sullo schermo.

Forse un ruolo nell'infelice destino della pellicola in Italia l'ha giocato la sfortunata congiuntura per cui, dopo le riprese alla fine dell'estate del 1996, era in post-produzione al momento della morte di Mastroianni, il 16 dicembre dello stesso anno. Presentato al festival di Cannes del 1997, fu distribuito in pochissime copie nel successivo mese di luglio.
Probabilmente, ha contato il fatto che Mastroianni nel film appaia già segnato dalla malattia, invecchiato e smagrito. Tuttavia, proprio durante la lavorazione di "Viaggio all'inizio del mondo" Mastroianni realizzò la video-intervista curata da Anna Maria Tatò "Mi ricordo, sì... io mi ricordo", cui fu data all'epoca ben altra risonanza.

Non comprendiamo comunque perché la lacuna che riguarda il film di De Oliveira non sia ancora stata colmata, in ormai quasi tre lustri.

Il "miracolo De Oliveira"

Manoel De Oliveira è nato nel 1908. Non solo ha oltrepassato i cento anni: il miracolo che quest'uomo incarna è l'aver girato oltre i due terzi della sua produzione a partire dagli ottanta anni di età (dal 1988, anno de "I cannibali", De Oliveira ha realizzato in media un film l'anno: sono oltre venti i suoi lungometraggi da allora, in una carriera che ne conta – sinora – una trentina).
All'epoca di "Viaggio all'inizio del mondo", De Oliveira aveva dunque ottantotto anni – sedici più di Mastroianni, che nel film interpreta il suo alter ego e si chiama come lui.
De Oliveira da allora ha girato un'altra dozzina di film. Lucidissimo e in fantastiche condizioni di salute, non si vede per cosa possa rilevare la sua età anagrafica, se non per testimoniare la propria stessa insignificanza.

L'opera di De Oliveira è cinematograficamente affascinante. La sua fruizione non è difficile tanto per la lentezza di ritmo, o per la ieraticità della recitazione. La sua fruizione è resa difficile dal senso di straniamento, che assale e turba lo spettatore, e scaturisce dal fatto che i suoi film si collocano, anche quando l'ambientazione è contemporanea, fuori dal tempo e dalla modernità (che pure vi è presente: al punto che nelle sue pellicole ad apparire anacronistici paradossalmente sono i modelli di auto o di telefoni cellulari, che appaiono troppo attuali indizi di "realtà" rispetto all'atemporalità di personaggi e vicende).
Il fatto è che De Oliveira è un regista fantastico camuffato da realista, e le sue opere sono mirabili allegorie che si mascherano entro uno stile contemplativo.

Siamo convinti che De Oliveira sia destinato a essere oggetto di studi accurati e doviziose rivalutazioni solo tra diversi anni. Ci sarà dell'ironia: visto che di tempo adesso ce ne sta concedendo. Per ora resta un regista di nicchia, nei confronti del quale anche chi ha dimestichezza con la sua opera prova un certo disagio: vuoi per la considerazione che non si sa bene sotto quale forma dimostrare verso un autore ultracentenario in piena attività; vuoi perché non si è ancora afferrato in modo definitivo sotto quale luce osservare le sue creazioni, che si collocano nella sfera dell'allegoria, del "favoloso", e del (dis)incanto.

Decisamente, vale per De Oliveira quanto ha scritto Milan Kundera a proposito di Fellini: "quando un artista è ispirato dalla sua libertà vespertina, il pubblico stenta a seguirlo. I salotti, la stampa, il pubblico, irritati dallo sguardo disincantato che egli rivolge al mondo contemporaneo, si allontanano da lui; non dovendo più nulla a nessuno, assapora la gioiosa irresponsabilità di essere libero come mai prima".
Anziano, un artista può prendere una direzione che non viene seguita: "priva di discepoli, priva di successori, l'opera della sua libertà vespertina è un miracolo, un'isola" (M. Kundera, Il sipario.)

L'opera di De Oliveira si va compiendo nel segno di una vertigine, sospesa su di un abisso: quello che separa il suo sguardo disincantato e vivo, dal mondo contemporaneo che in lui si riflette, trasmutato in forme allegoriche dal sapore arcano.

De Oliveira parla assolutamente del presente. Le sue opere, anche quelle più esplicitamente allegoriche e collocate in secoli passati (come "Il quinto impero", il cui sottotitolo persino ridondante recita: "oggi come ieri"), sono strettamente agganciate alla contemporaneità. Esse mantengono tuttavia un alone che le proietta immediatamente in una dimensione universale e atemporale. L'uomo che ci viene restituito dallo schermo è sì l'uomo di oggi, ma è anche l'Uomo nella sua essenza, dai tratti immutabili e eterni.
Anche "Viaggio all'inizio del mondo" si colloca in questa prospettiva.

"Viaggio all'inizio del mondo": la prospettiva rovesciata

La prima parte del film si svolge durante un itinerario in macchina. Nel corso di questo tragitto, vien fatto un uso molto insistito di una forma di ripresa decisamente insolita: l'inquadratura frontale della strada che si allontana, in una soggettiva senza soggetto, come se uno dei passeggeri stesse a guardare dal lunotto posteriore (e invece non c'è nessuno a farlo).
Che sia una metafora (notevole) del passato che si allontana è evidente. Ma intanto è un espediente, tanto semplice quanto originale – e a quanto mi consta, del tutto nuovo – per trasmettere una vertigine, e ipnotizzare lo spettatore.
Il nostro occhio infatti non è abituato a focalizzare un centro del quadro in allontanamento, con le linee della prospettiva che, anziché accorciarsi con l'avvicinamento, si allungano fino a perdere il soggetto sul fondo. Lo sguardo è abituato a sfrondare i dettagli e proiettarsi al centro, frontalmente, verso una meta che si fa più precisa e definita.
Lo sguardo fisso alle spalle, invece, mentre il mezzo di trasporto si muove in senso opposto, ipnotizza perché ci è estraneo, non familiare, perturbante, unheimlich. Appartiene al territorio del fantastico, al gioco dei bambini.
E' il rovesciamento della prospettiva con cui abitualmente si guarda alla vita.

Sono veramente tante – e prolungate (a volte oltre il minuto) – le inquadrature in cui (mentre ascoltiamo i dialoghi tra i personaggi a bordo dell'auto) la macchina da presa, assumendo un punto di vista che non è quello di nessuno, ci mantiene lo sguardo fermo su ciò che ci stiamo lasciando alle spalle.

Il tema del film è un tema che per eccellenza appartiene alla cultura portoghese: la saudade.
Prima di arrivare alla meta, il gruppo di viaggiatori fa sosta in un luogo termale abbandonato. La vegetazione ha conquistato tutto, e le pareti di quello che un tempo era un albergo sono rovine, in un paesaggio che possiede qualcosa di romantico (nel senso per cui nel Romanticismo si esaltavano le rovine, al punto da costruirne di finte nei giardini).
Di fronte a quelle rovine, esplorate dalla macchina da presa con una lentezza contemplativa come alla ricerca di un'improvvisa manifestazione che non si svela, Manoel ricorda e racconta di una giovinezza lontana. E quando gli viene fatto notare da Judite-Leonor Silveira, con il sorriso fiducioso della giovinezza, quanto quei ricordi siano vivi, lui replica, con un disincanto superiore alla malinconia, che quel tempo non è vivo, più: il significato che ha assunto lo possiede perché tempo ormai perduto.
E' lì che Duarte si sovviene dei versi del poeta brasiliano Catulo Searence che dicono: "la saudade è la terra franata di un cuore che ha sognato". Manoel li traduce in francese per Afonso, a ricordarci che la vita verso cui ciascuno va incontro è destinata a mutarsi in passato lontano: dell'intensità dei nostri sogni, resteranno al mondo solo resti in rovina, e a noi la saudade.

Quello del film nasce come un discorso sulla memoria, ma si fa discorso sull'esistenza: sul peso del vivere (e del sopravvivere: "vivere a lungo è un dono di Dio" – dice Manoel – "ma ha un suo prezzo"). In un'altra tappa del percorso nella memoria di Manoel, il gruppo viene invitato a fermarsi di fronte a una piccola scultura, un'artigianale omino che regge su di una spalla una pesante trave di legno (cui fa da supporto architettonico). Quell'omino sta lì da prima che Manoel nascesse: praticamente sta lì da sempre. A lui – che era stato persino battezzato con il nomignolo di Pedro Macau – e al suo solitario compito di sorreggere quella trave nell'indifferenza dei passanti, era persino stata dedicata una breve poesia in rima ("Sono Pedro Macau / sulle spalle reggo un palo / molta gente passa di qui / chi col musetto bianco / chi col musetto nero / e nessuno mi toglie da questo tormento").
Si ha l'impressione che passeranno le ere, e Pedro Macau resterà al suo posto come una sfinge: quasi eterno come lo è la pietra scolpita, testimone muto di eventi e generazioni.
Lui, da solo, con il peso di quella trave sulle spalle, che è il peso dell'esistenza.

Se nelle rovine della stazione termale abbiamo una testimonianza del tempo che frana su se stesso, a quest'omino di pietra De Oliveira affida lo straordinario correlativo oggettivo di ciò che nella realtà persiste, immutabile, al tempo.
Nel suo essere destinato a sopravvivere a Manoel, l'omino è anche segno, di un progressivo distacco dalle cose del mondo.

I due personaggi principali, Manoel e Afonso, incarnano due diverse dimensioni del viaggio: viaggio nella memoria, e viaggio di ricerca (del senso dell'esistenza).
Quello di Afonso, alla ricerca delle proprie origini, è del secondo tipo. E' un viaggio di recupero della memoria primigenia, quella dei padri, che non appartiene al nostro vissuto, ma che si avverte fondamentale per accedere a un senso più pieno del proprio essere al mondo. Nel suo viaggio, la memoria assume un significato prezioso, aperto al tempo e alla Storia. Ciò che Afonso cerca è una memoria di cui i luoghi e le persone conservino traccia. E' un viaggio alla ricerca dell'indelebile.
Quello di Manoel è invece un viaggio, nostalgico, a ritrovare irrimediabilmente mutati i luoghi della propria giovinezza: fa esperienza di come i luoghi, ai quali appartengono ricordi mai dimenticati, lo abbiano – loro – negli anni, totalmente dimenticato.
E' un viaggio di segno opposto al primo: se quello di Afonso è un viaggio alla ricerca di ciò che ci lega al mondo, quello di Manoel un viaggio che indica la misura dello scollamento del mondo presente, rispetto al nostro passato.
Sono prospettive che appartengono a diverse età delle vita. Nella prima la maturità è ancora in cerca di un senso; nella seconda, il senso – se lo si è trovato o no, non importa – si deve rintracciare alle proprie spalle.
Per Manoel la Memoria individuale si è convertita in unità di misura dell'Esistenza: un'unità di misura totalmente interiore, di cui il mondo quasi non conserva traccia.

La meta è l'origine

Quello di Afonso, cui è dedicata l'ultima parte del film, la più sontuosamente bella, è un viaggio la cui meta finale, il cui senso, sta lì dove si conserva una memoria primigenia.
Castro Laboreiro, il paesino remoto nelle più ancestrali montagne dell'entroterra lusitano, quasi ai confini con la Spagna (oltre alle quali sembra esserci l'ignoto primordiale, più che la Spagna), è un'Itaca.
E' lì che Afonso fa ritorno (in vece del padre) per scoprire il segreto del proprio esistere nel mondo.
Questo nostos rivela l'importanza dei legami di sangue, delle radici. Senza quel paesino remoto, abitato solo da anziani, abbandonato dai giovani, ormai sul punto di sparire, si spegnerebbe la fiamma della vita.
E alla luce della fiamma di un focolare, ha luogo una memorabile sequenza di questo film baciato dalla più alta ispirazione.
Inizialmente, la zia di Afonso è rigida e diffidente. Oltre a sospettare che questo sconosciuto sia il nipote, ella – e i suoi familiari – temono che sia venuto a rivendicare qualche pretesa ereditaria. Ma soprattutto, ciò che la mette sulla difensiva è l'estraneità della lingua. Come fa costui che non parla la mia lingua, a essere mio nipote? "Porque não fala nostra fala?" ripete ossessivamente.
C'è una vertigine, dietro questo interrogativo: una vertigine di senso che Afonso faticherà molto a colmare. Ci riuscirà, visto che con le parole tradotte dagli altri non ha successo, con un gesto altamente simbolico: rimboccatosi la manica di una camicia, porrà la mano della zia sulle proprie vene, facendole sentire il sangue che scorre.
E' il momento in cui l'anziana inizierà a sciogliersi.

Questa intera scena è immersa in una luce giallo-ocra, di chiara ispirazione caravaggesca. L'interno in cui si svolge vede i personaggi riuniti intorno a un tavolo su cui è allestita una vera e propria natura morta. La luce, giallo-ocra come nelle tele di Caravaggio, scende da un angolo superiore dell'inquadratura, rendendo l'atmosfera della scena, immersa nell'ombra, calda e pastosa.
Se nella prima parte del film, quella del viaggio in auto, c'è una progressione dei luoghi, nell'ultima parte del film, la progressione verso l'intimità della scoperta reciproca è segnata da una progressiva immersione nel buio delle scene in interno. Se il buio cresce, di contro la fonte luminosa accentua la sua intensità. Si passa così dalla luce ocra nella scena appena descritta, all'illuminazione rossa di un focolare, là dove la zia conduce il nipote. Si vedono ormai solo i volti, rischiarati dalle tonalità rosse del fuoco. Il resto dei corpi non si distingue dalla tenebra che li circonda.
E' come se De Oliveira indicasse una sempre maggiore concentrazione sui volti, sui primi piani: sull'essenziale.
Mentre la zia rievoca tempi lontanissimi, e soprattutto racconta com'è la vita lì oggi, tutto il resto non c'è, non conta. Ci sono solo i volti dei due, in particolare quello di lei: un primo piano segnato dalle rughe, austero e dolce allo stesso tempo. Intensissimo.
E' una scena intima come poche: l'illuminazione in cui è immersa le conferisce l'atmosfera di un momento di rivelazione in cui si attinge a regioni molto profonde dell'interiorità.

Non per caso la scena successiva è immediatamente all'aperto (nel cimitero del paese, presso le sepolture degli antenati). A una profonda immersione consegue una riemersione rigenerante. Un tesoro, sul fondo, è stato recuperato.

L'attore Jean-Yves Gautier, che interpreta Afonso, e appare un po' impacciato nella prima parte del film, riesce a trasmettere un'autentica commozione in queste sequenze cardinali.
Alla fine del film Afonso è in camerino, al trucco. Si mette baffoni e cappello, ad imitare l'aspetto della statua di Pedro Macau, e ne ripete la filastrocca. Con il viaggio appena compiuto la sua vita si è rinvigorita di senso, ma ha acquistato un maggior peso, una maggiore consapevolezza. Gli altri arrivano, applaudono, sorridono.

La staticità, la ieraticità, è segno del cinema di De Oliveira. Abbiamo visto come, però, lungi dall'essere la messa in scena di un copione scritto (il cinema del maestro portoghese è molto parlato), la cifra stilistica puramente figurativa sia densa di significati e molto espressiva. Siamo partiti dal rovesciamento ipnotico di una prospettiva, per approdare alla luce di un focolare in cui si distinguono assai pittoricamente solo i primi piani nelle tenebre.
E' un cinema che si compone di immagini quanto di parole, quello di De Oliveira: l'opera di un pittore, oltre che di un drammaturgo. O, più semplicemente, di un grandissimo regista.

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Recensione a cura di Stefano Santoli - aggiornata al 20/10/2010 11.21.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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