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PER QUALCHE DOLLARO IN PIU' regia di Sergio Leone

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Godbluff2     9 / 10  07/11/2022 19:30:02Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
"Quando la musica finisce, spara..." e risuonano le note dolci scaturite dall'orologio-carillon, una vera e propria colonna sonora diegetica, composta per essere ascoltata tanto dai personaggi quanto dagli spettatori; ma cominciano a risuonare anche le note drammatiche di una fuga d'organo con vista Bach oppure lo squillo imperioso, epico dei fiati tipicamente morriconiani, nel duello finale tra il colonnello Mortimer e Indio. In questi momenti le parole di Volonté/Indio "Quando la musica finisce, spara", che diegeticamente si riferiscono solo al suono dell'orologio, finiscono con l'essere la miccia che coinvolge narrativamente anche il resto della musica-quella teoricamente esterna al film-di Morricone nella dinamica delle sequenze; le partiture musicali si fondono con la narrativa del film, diventano un tutt'uno con la diegesi, sono inseparabili l'una dall'altra, in un meccanismo che scatta nella mente dello spettatore con la sovrapposizione di musiche diegetiche e non diegetiche che nell'evolvere della scena hanno eguale importanza. Leone qui trova, con l'apporto fondamentale dell'amico compositore, quella magia cinematografica fatta di emozione e spettacolo che tanto ricercava, portando su un piano espressivo ulteriormente evoluto le innovazioni di "Per un pugno di dollari".
"Quando la musica finisce, spara" ma vorresti non finisse mai, in un climax ipnotico che potrebbe continuare all'infinito.
Tutto questo dona a quelle due sequenze una forza lirica e drammatica meravigliosa, assente su simili livelli nel film precedente, potenziata anche dal maggior lavoro di caratterizzazione sui personaggi principali, soprattutto il Mortimer di Van Cleef e l'Indio di Volonté, ma nemmeno il Senza Nome (stavolta è "Il Monco") di Clint è escluso da questo processo.
L'inserimento di un passato drammatico (fumoso ma esplicitato in modo sufficientemente chiaro dai flashback allucinati della mente distorta di Indio) tra i due duellanti, della vendetta personale come obiettivo ultimo e dunque di un meccanismo più intimo e personale nelle loro figure ovviamente aumenta tanto l'epicità quanto la sensibilità di quel duello, che diventa più umano, più profondo del tipico "duello tra pistoleri" e che sulle note di quel maledetto carillon diventa persino commovente, perché tutti gli elementi in gioco sono espressi con perfetta e assoluta chiarezza allo spettatore. Tutti, compreso l'elemento nuovo del duello, l'elemento esterno, che dona ulteriore novità a questo meccanismo tipico del cinema western: il Monco è spettatore e arbitro del duello, e agisce in nome di una lealtà verso il Colonnello che forse nemmeno quest'ultimo si aspettava davvero, frutto di un personaggio, come dicevo prima, più sviluppato e maturo rispetto a quello del "Joe" dell'anno prima. Il Monco interviene per riportare il duello in una situazione di equità, concedendo all'amico colonnello la possibilità di guadagnarsi la sua vendetta da solo, come da suo desiderio, ma non interferisce, segna solo il tempo scandito dalle note dell'orologio, un protagonista che si mette da parte lasciando ad altri il momento più epico, mostrando una struttura in realtà più corale, un triangolo- Monco-Colonnello-Indio-centrale nel film.
Naturalmente nel duello finale Mortimer dovrà per forza di cose affrontare l'avversario con modalità d'azione opposte alle sue abituali mostrateci per l'intero film. Traspaiono le emozioni dove abbiamo visto fino a quel momento solo fredda lucidità, ed è un momento meraviglioso. Una sequenza conclusiva che è fatta di tanti piccoli tocchi, di scrittura, di musica, di regia e montaggio (con l'intensità dei primissimi piani e dei particolari sugli sguardi, sulle mani che flettono le dita pronte al movimento finale, ormai già marchi di fabbrica di Leone, inquadrature rapide, sempre più rapide-montaggio fulmineo, come quando il Colonnello vede per la prima volta il manifesto di Indio), anche di interpretazioni efficacissime e che rendono il tutto un vero capolavoro nel capolavoro, il punto di arrivo di un grandissimo film, semplice da fruire ma creato con più complessità e attenzione di quanto non possa sembrare ad una prima occhiata. Insomma, il cinema di genere che non poteva, all'epoca, essere considerato d'autore quando d'autore lo era in tutto e per tutto, se non per la cecità che da sempre accompagna ciclicamente la critica per un motivo o per l'altro.
Per il resto "Per qualche dollaro in più" è già un capolavoro e un buon passo per Leone verso la maturità artistica finale ed è, di fatto, tutto un'aggiunta rispetto al fratello povero dell'anno precedente. La co-produzione è principalmente Europea, ma la forza dello "Spaghetti-Western" sta cominciando ad espandersi anche oltre oceano e l'intervento della United Artists (che si occuperà della distribuzione internazionale) permette a Leone di usufruire di un budget tre volte superiore a quello avuto per girare "Per un pugno di dollari" (si, insomma, i titoli cadono a fagiolo, pare che Leone lo abbia scelto apposta, durante le beghe con la precedente casa di produzione) e si vede. Leone ha sempre più confidenza con quella che è la sua idea di (nuovo) cinema western e i mezzi maggiori gli permettono una cura e una ricostruzione scenografica ben maggiore e un'altrettanto maggior libertà nella costruzione della messa in scena e di sequenze più complesse e davvero fantastiche con invenzioni di regia sempre più memorabili.
La scarna scheletricità del film precedente mi piace moltissimo ma non c'è dubbio che qui si facciano solo passi avanti, in ogni senso.
Qualche momento indimenticabile: i titoli di testa; la sequenza del "duello dei cappelli", per la sua ironica epicità; gli scontri del colonnello Mortimer con Wild; Indio che sale sul pulpito per raccontare la sua "parabola" e naturalmente il "no, niente, vecchio... Non mi tornavano i conti" finale.
Poi un gruppo di attori protagonisti e caratteristi meraviglioso: Clint Eastwood, che si conferma l'uomo con-senza sigaro per eccellenza, torna nel ruolo del cinico di ghiaccio con in realtà un forte senso di lealtà e umanità al suo interno, con un personaggio che gli permette di liberare maggiormente quella beffarda ironia nera ancor più presente e ancor più divertente che nel film precedente. In più, Eastwood ci guadagna con il doppiaggio di quel grande attore che era Enrico Maria Salerno.
Lee Van Cleef Leone lo aveva ripescato in extremis negli Stati Uniti, al cinema non aveva mai sfondato e faceva il pittore, questo ruolo fu la sua tardiva ma meritata consacrazione; è bravissimo, una faccia bronzea dagli occhi a mandorla e un ghigno dall'incredibile espressività e non solo, l'inaspettata commozione accennata dagli occhi durante il duello finale, nel momento dell'intervento del Monco a suo favore, in un attimo da tanta forza in più al personaggio.
Gian Maria Volonté... Vabbè. Ma c'è da dire che qui il suo personaggio è decisamente più interessante rispetto al Ramòn del "Pugno". Indio è uno psicopatico, non un semplice bandito, con interessanti aspetti comportamentali ai quali Volonté da superbamente corpo: dagli scoppi di risa grondanti malignità, alla lucida crudeltà, fino a quei suoi momenti di "stasi", di straniamento dal resto del mondo, legati agli eventi che vediamo nel flashback. Indio è un bel personaggio, un cattivo molto più interessante della media dei cattivi western.
Poi tutta quella galleria di brutte facce che costellano il film, sapientemente inquadrate con cura da Leone, le solite facce, che avevamo già visto e ancora rivedremo (questa volta Mario Brega ha un ruolo interessante, per il suo rapporto particolare con Indio) più qualche faccia nuova... La faccia più brutta di tutte: Klaus Kinski, che fa il caratterista come faceva spesso negli anni '50 e '60, prima che in patria arrivassero Herzog e Aguirre a consacrarlo. Kinski frequenterà spesso e bene il genere western negli anni '60, successivamente a questo film anche in ruoli più corposi, a volte anche da protagonista, ma qui con Leone fa il caratterista e caspita, se rimane impresso (e come poter pensare il contrario...).
Alla sceneggiatura c'è Luciano Vincenzoni (ma altri hanno messo mano ad alcuni dei più memorabili dialoghi, come Sergio Donati) e, per la serie "film che sono palestre del mestiere" nei titoli di testa sono accreditati come assistente alla regia Fernando Di Leo e come aiuto regista Tonino Valerii, quest'ultimo destinato a seguire la strada del western moderno nella seconda metà degli anni '60 e la prima dei '70.
"Per qualche dollaro in più" è un film meraviglioso che inaugura quella splendida serie di cinque capolavori consecutivi (più "Per un pugno di dollari" che non è che ci vada tanto lontano, eh, siam lì) che Sergio Leone ha saputo lasciare alla storia del cinema. Pochi (anche perché per l'ultimo ce ne è voluto di Tempo) ma grossi.