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TRAINSPOTTING regia di Danny Boyle

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ULTRAVIOLENCE78     7½ / 10  25/07/2008 12:16:47Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
L'incipit del film fa parte oramai della storia del cinema: momento folgorante in cui il protagonista, un po’ alla maniera di Alex De Large (il capolavoro di Kubrick verrà poi apertamente citato nella scena all’interno di un locale, le cui pareti sono decorate secondo lo stile del “Korova milk bar”), presenta la sua ghenga nel bel mezzo di una forsennata fuga dalla polizia. L’inizio offre già la stura per enunciare la riflessione centrale dell’opera tratta dall’omonimo romanzo di Welsh: la contrapposizione tra la vita-morte: quella medio-borghese fondata su frivolezze, vacue illusioni, falsi valori e su tutti gli inutili feticci imposti dalla società; e la non-vita, rappresentata dallo straniamento dalla mediocrità del reale attraverso la “perdita di se stessi” nella droga. In questo senso, viene spontaneo l’accostamento di “Trainspotting” al film –successivo- di Davide Fincher “Fight club” (anch’esso tratto da un romanzo), nella cui prima parte si enuclea la caustica invettiva al vuoto e ossessivo consumismo su cui si incentra l’esistenza del moderno cittadino occidentale. Ma il parallelismo più evidente è quello con “Paura e delirio a Las Vegas” (ispirato all’opera omonima di Hunter Thompson, e uscito due anni dopo il film di Danny Boyle), dove il regista accompagna lo spettatore in un viaggio “tossico” verso Las Vegas, cioè verso il luogo che per eccellenza rappresenta l’ingannevolezza del sogno americano e, “lato sensu”, di tutte le convenzioni e regole su cui è impostata la società occidentale. Ma mentre Gilliam, in definitiva, condanna la fuga nell’oblio generato dalle sostanze allucinogene, riconducendola alla fallace speranza che in fondo al tunnel della dipendenza ci sia una luce, in “Trainspotting” la presa di posizione è meno marcata: è vero che Boyle mostra tutti i lati deleteri della vita dell’eroinomane (dai deteriori e insostenibili effetti dell’astinenza fino al profondo oblio che fa perdere qualsiasi percezione della realtà causando spesso irreparabili dimenticanze, come dimostra l’agghiacciante scena della morte del neonato), ma nel raffronto con tutto l’ipocrisia e il vuoto che dominano nella “civiltà” borghese egli sembra quasi astenersi dall’emettere giudizi netti. In questo senso il finale del film si presenta meno conciliante rispetto all’opera di Fincher, nella quale l’accettazione del reale è vissuta più “serenamente” attraverso un ritrovato equilibrio interiore: Mark capisce che è impossibile sfuggire alla “catena di montaggio” della realtà, per cui non può far altro che adeguarsi ad essa diventando una delle tante “carogne” che, pur di ritagliarsi un proprio spazio da persona ”per-bene” nella società civile, sono pronti ad eliminare il prossimo.