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MEDUSE regia di Etgar Keret, Shira Geffen

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kafka62     8 / 10  16/05/2018 09:41:08Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
"Meduse", della coppia di scrittori Etgar Keret e Shira Geffen, camera d'or come opera prima al festival di Cannes 2007, è un'autentica sorpresa. Niente conflitti tra israeliani e palestinesi qui, nessuna atmosfera da popolo ebreo ostinatamente in difesa della propria terra di fronte agli attacchi del mondo arabo, ma al loro posto (finalmente!) una strana favola metropolitana, ammantata di surreale poesia e di commovente malinconia. L'ambientazione di partenza sembrerebbe quasi kieslowskiana: delle tre protagoniste, la prima (Batya) fa la cameriera e vive in un triste appartamento che fa acqua dal soffitto (echi di Tsai Ming-Liang?), e nel corso del film viene lasciata dal fidanzato, licenziata e ricoverata in ospedale dopo essere stata investita per strada; la seconda (Keren) si rompe una gamba il giorno del suo matrimonio ed è costretta a passare la luna di miele in uno squallido albergo, rumoroso e maleodorante; la terza (Joy) è una badante filippina che non parla la lingua del paese in cui è emigrata e che ha lasciato a casa un figlio di cinque anni che le strazia il cuore con il rimorso della sua lontananza. In questo scenario di tristezza, di solitudine e di angoscia esistenziale, così comune a tanto cinema di alienazione contemporanea (un esempio su tutti: Aki Kaurismaki), Keret e Geffen inseriscono però un originale messaggio di conforto e di speranza (che richiama l'ottimismo de "Il favoloso mondo di Amelie", ma senza il suo semplicistico buonismo): è vero che i personaggi sono circondati dal cinismo (il sergente di polizia, che con la fotografia di una persona scomparsa fa una barchetta di carta), dall'arroganza (il direttore dell'agenzia di catering) e dall'egoismo, pur ammantato da motivazioni filantropiche (la madre di Batya) o artistiche (l'attrice figlia della vecchia signora accudita da Joy), ma a ognuno di essi, miracolosamente e contro ogni aspettativa logica, è sempre riservata una presenza salvifica, un angelo custode, magari sotto le spoglie di una bambina muta inspiegabilmente uscita dal mare (il mare che è metafora dell'inconscio da cui riemergono i ricordi sepolti del passato) per riaccendere una fiammella di speranza nella vita dell'infelice protagonista. Questa epifania è l'esemplificazione della necessità imprescindibile di non rinchiudersi in se stessi e di non negarsi mai ai rapporti umani. C'è sempre dell'amore pronto a essere donato da chi meno te lo aspetti (la vecchia che compera la barca-giocattolo che Joy aveva sognato di regalare al suo bambino), e persino un suicidio (la scrittrice dell'albergo che trova nel cassetto le parole "giuste" per il suo ultimo gesto) può trasformarsi in un sacrificio necessario affinché altre persone (la coppia di sposini in crisi) possano ritrovarsi. In questo splendido film corale, ricco di folgoranti invenzioni visive pur nella povertà della messa in scena, in cui i personaggi si sfiorano e si incrociano come in una pellicola di Altman, gli esseri umani sono come le meduse del titolo, sballottate dalla vita, neglette e vituperate, ma bisognose di amore, di compagnia e di un approdo sicuro sulla sabbia di una qualche spiaggia, e se solo si riesce a rompere il muro di ghiaccio (i tentacoli urticanti) che li circonda allora è possibile qualsiasi miracolo, anche quello di vedere realizzati i sogni abbandonati dell'infanzia (il venditore di gelati della fotografia che riappare nell'ultima inquadratura).