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INTO THE WILD regia di Sean Penn

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kafka62     8 / 10  09/03/2018 11:37:41Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
E' dai tempi di "Corvo Rosso non avrai il mio scalpo" e di "Dersu Uzala" che non si vedeva al cinema una rappresentazione così lirica e potente del Grande Nord fascinoso e selvaggio, bellissimo ed esiziale, proprio come lo avevano immortalato i romanzi di Jack London. E' proprio portandosi nello zaino "Il richiamo della foresta", oltre ad alcuni libri di Tolstoj, Thoreau e Byron, che Christopher McCandless, un brillante ventitreenne di buona famiglia neo-laureato, parte per l'Alaska, dopo aver donato a un istituto di beneficenza i soldi che aveva depositati in banca, bruciato documenti e carte di credito, e perfino cambiato il proprio nome in un improbabile Alex Supertramp. La sua scelta anticonformistica, profondamente critica nei confronti della società capitalistica, del consumismo e perfino dell'istituzione familiare, è in realtà dettata da una motivazione più profonda, da un bisogno primario e insopprimibile: quello di misurarsi con il mondo senza l'aiuto di nessuno, facendo affidamento sulle sole proprie forze, alla ricerca di una verità non convenzionale e non prefabbricata. Essere artefici del proprio destino: questo è il vero significato della fuga di Chris-Alex, del suo vagabondare in giro per gli States, viaggiando in autostop o sui vagoni merci dei treni, scendendo in canoa il fiume Colorado fin oltre il confine con il Messico o bivaccando a lungo in una comune hippie, sempre evitando le grandi città (viste come gabbie luccicanti per intrappolare gli individui), fino ad arrivare al capolinea (del suo viaggio e della sua vita) in una landa innevata e inospitale, all'interno di un vecchio autobus scassato che gli fa da precaria abitazione.
La bravura di Sean Penn è stata quella di evitare di fare un'apologia acritica e sentimentale della vita on the road. Quella di Chris (che – detto per inciso – è assolutamente vera, narrata da Krakauer in un suo romanzo) è la storia di una sfida estrema, cui è difficile non dare la propria incondizionata adesione di spettatore, ma è anche, in tutta onestà, la storia di una sconfitta. Chris è, con le parole della sorella, un "estremista", un "moralista" e un "esteta", un connubio che non può che portarlo a una solitudine ascetica, a far terra bruciata attorno a sé, a tagliare i ponti con tutto e con tutti (e la scoperta di non poter più tornare indietro a causa della piena del fiume sembra quasi la esemplificazione metaforica di questo assunto). Troppo tardi Chris scopre che "la felicità è reale solo quando è condivisa", che il significato più autentico del suo viaggio è consistito negli incontri fatti strada facendo (la coppia hippie ed il vecchio vedovo sono quasi dei sostituti in positivo dei suoi genitori lontani e gli offrono disinteressatamente, così come molti altri personaggi del film, affetto e comprensione) più che nella meta raggiunta. La sua morte, per quanto riscattata dalla innegabile bellezza di un paesaggio incontaminato, giunge quasi come la punizione di un peccato di superbia, commesso contro un Dio visto panteisticamente come entità presente in ogni essere e in ogni cosa piuttosto che come un Dio di amore e di perdono, da sperimentare nel vivo dei rapporti umani e non solo in una solipsistica solitudine, in un panico stupore nei confronti del creato.
Sean Penn ha saputo trovare il giusto equilibrio tra la complessità della personalità del protagonista (unico neo l'aver troppo insistito sulle responsabilità genitoriali nei confronti di quella che è invece, primariamente, un'insopprimibile esigenza di vita) e la semplicità, la schematicità della storia (schematicità che il regista asseconda suddividendo il film in cinque capitoli: "nascita", "adolescenza", "maturità", "famiglia" e "conquista della saggezza"). Se un Herzog avrebbe fatto di Chris un anti-eroe folle e irrimediabilmente "diverso", Penn si innamora del suo personaggio, lo rappresenta con un'aura di epica e romantica grandezza, pur non sposandone fino in fondo – come si è visto – le sue ragioni, e proprio in virtù di questa immedesimazione dà al film un tono di estatica commozione, come nella straziante scena della morte di Chris, i cui occhi spalancati fissano per l'ultima volta l'immagine del cielo sopra di lui. "Into the wild" è un film che scuote profondamente lo spettatore, perché sa toccare il punto nevralgico di quella che è la fondamentale dicotomia dell'uomo, oscillante tra due opposte e inconciliabili tentazioni: la passione per l'avventura e l'ignoto da una parte, e la voglia di mettere radici, di farsi una famiglia dall'altra. E' in questa lacerazione, che Penn esprime anche con i numerosi flash back e con gli affettuosi interventi fuori campo della sorella ("spero proprio che ciò che mio fratello sta facendo doveva essere fatto"), che "Into the wild" trova una sua incontrovertibile verità psicologica. Ma è con le scene immerse nella wilderness dell'Alaska, di una bellezza stupefacente e per nulla esteriore, che il film assurge a vette di rara e struggente emozione, cullato dalle meravigliose musiche composte per l'occasione dal leader dei Pearl Jam, Eddie Vedder. Anche se forse "Into the wild" non è un capolavoro (certe sequenze, come il soggiorno nella comunità hippie, indulgono troppo in una naïvété e in un "folclore" anni 70), siamo grati a Penn per averci toccato nell'intimo delle corde rimaste troppo a lungo nascoste ed accompagnato in questo appassionante viaggio fino alle soglie dell'inaccessibile mistero della vita.