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VIAGGIO A KANDAHAR regia di Mohsen Makhmalbaf

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kafka62     6½ / 10  10/02/2018 19:14:48Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Non finisce mai di stupire la capacità che il cinema possiede di confrontarsi problematicamente con l'attualità più scottante, spesso addirittura anticipando profeticamente gli eventi. Se "No man's land", con le sue riflessioni sulle radici della violenza e dell'odio interetnico, ci faceva pensare indirettamente all'Afghanistan, "Viaggio a Kandahar" ci porta niente meno che "in media res", in quel cuore dell'Asia centrale uscito sconvolto dalla ventennale guerra con la Russia e in procinto di diventare un macabro laboratorio del terrorismo globale. Certo, nel film non ci sono ancora i bombardamenti dell'aviazione americana e Bin Laden è solo un mostro acquattato nel buio della Storia che il sonno della ragione deve ancora partorire, ma scene come quella ambientata nella scuola coranica, dove i bambini sono addestrati a diventare feroci guerrieri di Allah, contengono già in se i germi del futuro attentato alle Twin Towers.
"Viaggio a Kandahar" è uno sconvolgente road movie in un Paese (è l'Afghanistan, ma potrebbe essere lo Yemen o l'Irak) in cui l'unico segno di modernità, come dice alla protagonista il medico che la sta visitando, sono le armi e in cui metà della popolazione, quella femminile, è costretta a vivere coperta da un orrendo "burka" che la rende di fatto anonima e deprivata della propria dignità di persona. E', secondariamente, la storia di Nafas, una donna afgana che ora risiede in Canada e che, venuta epistolarmente a conoscenza dell'intenzione della sorella di suicidarsi lo stesso giorno dell'eclisse solare, si reca dopo tanti anni nella sua terra natale per ritrovarla e farla recedere dal suo proposito. Ma a Makhmalbaf la corsa contro il tempo di Nafas per arrivare in tempo a Kandahar interessa relativamente poco. Avendo il coraggio di ironizzarci su, si potrebbe dire che in fondo, nella situazione in cui in Afghanistan si trova a vivere oggi un essere umano, per di più donna, e per sovrappiù di sventura mutilata di entrambe le gambe, non si vede il motivo per cui essa non debba suicidarsi, come forse si rende conto la protagonista quando osserva sarcastica che se hai perso una gamba per colpa di una mina e ciononostante non diventi un campione di corsa la colpa è solamente tua. In realtà per il regista la trama è solo un pretesto per parlare d'altro, e cioè per descrivere, attraverso gli incontri che la protagonista fa lungo la strada, una sorta di via crucis collettiva in cui le varie tappe sono le scandalose violazioni dei diritti umani che vengono perpetrate in quell'immoto Medioevo asiatico. E così vediamo in successione, al di là del confine, una scuola in cui alle bambine profughe viene insegnato a stare in guardia contro le micidiali mine camuffate in invitanti bambole di pezza, e subito dopo, appena entrati in Afghanistan, una scuola coranica che alleva nel fanatismo più totale i famigerati talebani di domani; e ancora un ospedale da campo della Croce Rossa in cui vengono distribuite gambe artificiali per le vittime delle mine, un ambulatorio medico in cui il dottore è costretto a visitare la paziente attraverso una tenda con un buco, e poi profughi, tanti profughi inermi, che attraversano in tutte le direzioni il deserto afgano in balia di rapine, violenze, arbitrii e sopraffazioni.
Makhmalbaf è un regista che sa sfruttare molto bene le suggestioni fotogeniche del paesaggio, come il contrasto tra gli sgargianti colori degli abiti delle donne afgane e la monocromia del deserto, oppure un infuocato tramonto visto attraverso i fori del "burka". Le sue immagini sono destinate a imprimersi per la loro bellezza e la loro originalità nella memoria dello spettatore, come ad esempio la scena surreale in cui le gambe artificiali scendono dal cielo appese ad un paracadute. Come in Kiarostami, e in linea con una scuola cinematografica sempre più consolidata, non c'è nello sguardo di Makhmalbaf alcuna naivetè, bensì un approccio intellettualistico in tutto ciò che racconta, che a volte lo fa indulgere in estetismi gratuiti. La sequenza in cui i mutilati corrono con le loro stampelle incontro alle gambe paracadutate dagli aerei della Croce Rossa è indubbiamente affascinante, ma, ripresa com'è al ralenti e con una musica invadente in sottofondo, appare un po' falsa e retorica. Sotto questo aspetto, avrei preferito la semplicità documentaristica di un altro film avvicinabile per intensità emotiva e profondità etica a "Viaggio a Kandahar", vale a dire "Il cerchio" di Panahi. Nonostante abbia più sopra sottolineato come l'intreccio sia per il regista un mero pretesto, una semplice cornice narrativa (analogamente alla ricerca del bambino in "E la vita continua" di Kiarostami), non mi ha inoltre molto convinto il modo frettoloso in cui il film è stato fatto terminare, come se Makhmalbaf, arrivato in vista di Kandahar, non sapesse più cosa farsene della sorella del protagonista e dei suoi propositi suicidi. A meno di non vedere in lei un simbolo astratto del popolo afgano, votato alla distruzione da una politica anacronistica e scellerata, questo finale rischia di inficiare in parte l'esito artistico del film, che comunque, per le tematiche che affronta e gli spunti di riflessione che offre, rimane pur sempre un'opera importante e coraggiosa.