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IL DIVO regia di Paolo Sorrentino

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kafka62     7 / 10  28/02/2018 10:20:16Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Sorrentino è un regista che ama il paradosso e l'ossimoro: se "Le conseguenze dell'amore" era, pur nella feroce misantropia del personaggio principale, una storia d'amore e (perfino) di amicizia, se "L'amico di famiglia" era il ritratto di un uomo laido e ripugnante e allo stesso tempo un film sulla bellezza, così "Il Divo" mette contemporaneamente in scena i più turpi misteri della recente storia italiana (omicidi, stragi, collusioni tra politica e mafia), associati all'uomo che di questa storia è un po' il simbolo, e una idea, per così dire machiavellico-goethiana (nel senso del "Faust", in cui Diavolo dice di sé: "Sono una parte di quella forza che vuole costantemente il Male e opera costantemente il Bene"), una idea – dicevo – in virtù della quale il protagonista può candidamente affermare, con ciò in pratica autoassolvendosi: "Nessuno sa quanto si debba amare Dio per capire che bisogna perpetrare il Male al fine di salvaguardare il Bene". E' grazie a questa ambiguità di fondo che Giulio Andreotti, interpretato camaleonticamente da Toni Servillo, abilissimo nel mimare la sua sfingea rigidità (contrapposta alla disordinata vitalità del mondo circostante), il suo modo di camminare, e perfino i suoi tic meno appariscenti (come le dita che fanno nervosamente girare la fede nuziale), risulta alla fine quasi simpatico. Sorrentino, così come Moretti con Berlusconi, era ben conscio che non si può parlare di un personaggio storico vivente se non in maniera indiretta, mediata, per non cadere negli odiosi vizi della polemica politica alla Michael Moore o nei beceri birignao della caricatura e della satira. E se Moretti aveva risolto il dilemma mettendo al centro della sceneggiatura un regista fallito alle prese con un copione "scomodo" e con le sue vicissitudini familiari, Sorrentino sceglie la strada della deformazione grottesca, sulla scia dei film "politici" di Elio Petri degli anni '70. In questo modo pennella irresistibili scene dal gusto "pop" come la serie degli omicidi del prologo o la presentazione degli uomini della corrente andreottiana, sciorina aforismi come in una biografia di Oscar Wilde, accompagna la camminata mattutina di Andreotti per la quotidiana confessione o la salita al Quirinale per l'insediamento del suo settimo governo con il Pavane di Fauré e con la musica di Vivaldi (in tal modo richiamando un'atmosfera di altri secoli, forse per citare l'unico uomo politico che per molti versi gli assomigliava, Talleyrand), e soprattutto si sofferma su tanti piccoli gesti secondari che tracciano un ritratto inquietante ma in fondo anche umano (vedi la sua invincibile solitudine e i rimorsi per la fine di Aldo Moro che non lo lasciano dormire) di quello che è un autentico mito moderno. Se anche "Il Divo" non si può dire completamente riuscito, tanto ingombrante è la contiguità con l'attualità e tanto poco spettacolare (soprattutto per uno spettatore poco avvezzo a frequentare la cronaca politica) la materia narrativa, Sorrentino sorprende per essere riuscito ad affrontare una sfida quasi impossibile e a portarla a termine con grande dignità artistica, non a caso premiata al Festival di Cannes con il premio della giuria.