caratteri piccoli caratteri medi caratteri grandi Chiudi finestra

AN AMERICAN CRIME regia di Tommy O'Haver

Nascondi tutte le risposte
Visualizza tutte le risposte
Invia una mail all'autore del commento ilSimo81     10 / 10  30/03/2012 19:24:46Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Com'è difficile accettare di restare sconvolti da un film, quando si sa che le terribili vicende narrate corrispondono ad una verità storica.

Nell'estate del 1965, la sedicenne Sylvia Likens insieme alla sorella Jenny viene affidata dai genitori alle cure di Gertrude Baniszewski, casalinga e madre di sette figli, che generosamente accetta di prendersi cura anche delle due sorelle.
Gertrude è però una donna fortemente instabile, il cui precario equilibrio frana inesorabilmente sotto il peso di problemi mentali, sentimentali ed economici. I dolci tratti della madre amorevole si induriscono spesso in un viso freddo e sadico, sotto il malato pretesto di una rigida educazione, e Sylvia diventa l'oggetto di soprusi ed angherie. La vittima di "un crimine americano". Non di un crimine qualunque, bensì di quello che, già al tempo, fu definito "il peggio crimine individuale mai commesso contro una persona nella storia dell'Indiana".

Sylvia Likens è una ragazza educata e gentile, dall'animo buono e dal viso angelico. La sua storia smuove necessariamente le coscienze. All'inizio si resta scossi da come ogni evento diventi facilmente un pretesto per Gertrude di sfogarsi sul capro espiatorio Sylvia. Ma col passare del tempo, si crea un disagio ancor più frustrante ed imbarazzante: in un modo o nell'altro, TUTTI i personaggi che la circondano hanno una qualche colpa nei confronti della povera ragazza. Colpevole è chi istiga, chi colpisce, chi partecipa, ma colpevole è anche chi abbandona, chi omette, chi si gira dall'altra parte. Nessun innocente in questa storia, oltre alla martire Sylvia.

Il caso Likens viene narrato in due resoconti cinematografici, entrambi del 2007.
Il primo è "The girl next door" (adattamento dell'omonimo romanzo di Jack Ketchum): essenzialmente un horror, che si prende la libertà di raccontare i fatti in maniera più cruda, ricavandoli da una libera interpretazione degli eventi reali.
Il secondo è appunto "An american crime", strettamente aderente alla realtà ricostruita nei vari gradi del processo. Un film che si priva dei sensazionalismi horror per evidenziare la drammaticità della storia di Sylvia, approfondendo la psicologia di vittima e aguzzina.

O'Haver prende la vicenda Likens e ne fa un capolavoro.
La scelta di fondo è la mossa vincente: una storia così angosciante non aveva bisogno di effetti, di sovrastrutture, di aggiunte. O'Haver la racconta così com'è. Rinuncia ai sensazionalismi d'orrore, riservando a Sylvia una certa delicatezza quando decide di mostrare relativamente poco delle sevizie che subisce. Gioca a livello psicologico con lo spettatore, a cui fa intuire gli eventi attraverso cenni, grida disperate e struggenti primi piani. E questo è un enorme punto a suo vantaggio.
Anche la struttura del film è efficace: ambientato durante il processo, narra gli eventi tramite flashback, rievocati tramite le testimonianze delle persone interrogate. E' un modo per snellire la "pesantezza morale" del film ed è al contempo un buon sistema per approfondire la conoscenza dei personaggi, potendone confrontare il comportamento ai tempi dei fatti con l'atteggiamento ai tempi del processo.
In un cast in cui è difficile trovare qualcuno che sfiguri, eccellono per intensità, bravura ed abilità di caratterizzazione le due protagoniste, angelo e diavolo. Ellen Page è straordinaria nello smuovere, dolcemente ma irresistibilmente, i sentimenti dello spettatore, portandolo inevitabilmente ad entrare in empatia con Sylvia. Catherine Keener è sublime nel dar vita, in modo credibile ed intenso, ad un personaggio dai mille volti (una madre dolce, una donna triste, una fredda aguzzina; sguardi amorevoli, catatonici o feroci).

"An american crime" è ben più di un film. E' il racconto dell'incredibile, tremenda, stucchevole capacità umana di procurare dolore, e dell'indifferenza del mondo in cui questo viene troppo spesso perpetrato. Lasciando un segno indelebile.