kafka62 8 / 10 13/05/2018 16:03:02 » Rispondi Ci sono due categorie di pellicole nella filmografia del Clint Eastwood regista: quelle in cui non compare come attore – sono i film che ambiscono in qualche modo a una classicità di genere, siano essi biopic ("Bird"), western ("Gli spietati"), war movies ("Lettere da Iwo-Jima"), thriller ("Mystic River"), e così via – e quelle in cui mette invece la propria faccia anche davanti la macchina da presa. Questa seconda schiera di film comprende forse le opere più personali, quelle in cui si riflette compiutamente la sua filosofia di vita, il suo punto di vista morale. E' così anche per "Gran Torino", intensa e sofferta riflessione sulla vecchiaia, sulla morte, sulla convivenza tra culture diverse e, in ultimo, sulla necessità di dare un senso alla propria vita. E' un film non esente da un certo schematismo (ripercorre in fondo le regole del film di formazione, alla "Scoprendo Forrester", per fare un solo esempio tra i tanti, in cui un personaggio maturo prende sotto la sua ala protettrice un giovane appena affacciatosi alla vita, facendolo maturare e diventare un uomo), ma è uno schematismo che non dà fastidio, anzi fa assurgere "Gran Torino" a una dimensione che, come l'automobile del titolo, è semplicemente quella di un oggetto forse un po' desueto, fuori moda, ma in definitiva di una classe enormemente superiore a quella dei suoi concorrenti. Eastwood, il volto scavato dalle rughe, il fisico prosciugato dagli anni, il ghigno che all'inizio esprime disapprovazione verso tutto e verso tutti (i parenti che lo circondano al funerale della moglie, i vicini di casa asiatici, i teppisti che maramaldeggiano nella cittadina del Midwest in cui vive) ma che pian piano si scioglie nella accettazione del diverso da sé, tale da esprimere un calore umano capace di vincere la solitudine e di far venire a patti anche con i tormentosi fantasmi del passato (il protagonista Walt Kowalski è un reduce della guerra in Corea), Eastwood – dicevo – giganteggia sullo schermo, passando agevolmente dai toni della commedia (i dialoghi con il barbiere italiano, i battibecchi con la vecchia asiatica vicina di casa) a quelli della tragedia. E se a qualcuno nel corso del film venissero dubbi che si tratti di una storia già vista (quella di un giustiziere che fa piazza pulita dei cattivi che vessano i buoni), Eastwood sorprende tutti con un finale che è un meraviglioso esempio di etica cristiana:
Walt Kowalski si presenta senza armi al domicilio dei delinquenti che hanno stuprato la sorella dell'amico Thao, con lo scopo deliberato di sacrificare la propria vita pur di realizzare il proposito di consegnarli alla giustizia e liberare così il quartiere dalla sopraffazione e dall'odio. E' sorprendente come la soluzione che tutti – spettatori compresi – hanno in mente come naturale sbocco della vicenda non sia la vendetta ma il sacrificio che redime (Kowalski non si è mai perdonato di avere ucciso in guerra tanti esseri umani). Eastwood muore come Cristo, riverso sul selciato con le braccia allargate come se fosse su una croce immaginaria.
E' un momento di cinema magnifico e commovente, forse il vertice di una personalità che si fa ammirare una volta di più per umanità e coerenza morale. E' anche un grande esempio di cinema non cerebrale, non intellettualistico, ma semplice e alla portata di tutti: in quello che potrebbe essere uno dei suoi ultimi messaggi, Eastwood sembra così indicare una via di salvezza per il cinema drogato dagli effetti speciali, oltre che, naturalmente, per un mondo troppo cambiato per un uomo di un'altra epoca quale egli – come il suo Kowalski – probabilmente si sente.