caratteri piccoli caratteri medi caratteri grandi Chiudi finestra

GRAN TORINO regia di Clint Eastwood

Nascondi tutte le risposte
Visualizza tutte le risposte
ULTRAVIOLENCE78     7½ / 10  26/03/2009 20:35:52Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Con quest’opera Clint Eastwood lascia il suo “testamento” sulla tolleranza e sul senso di fratellanza, che travalica i limiti dei vincoli di sangue e di razza.
In un perfetto equilibrio tra ironia e dramma, il regista di San Francisco racconta una storia semplice, lineare ma altamente pregnante e densa di significati morali. A tal fine, egli designa come protagonista Walt Kowalski: un reduce della guerra di Corea, prototipo del conservatore americano caratterizzato da un radicato senso nazionalista ai limiti dell’antisemitismo. Eastwood ne mette subito in luce il carattere burbero, scontroso (richiamandosi, sotto quest’aspetto, al Kowalski “brandiano” di “Un Tram che si chiama desiderio”); ma tratto tratto che la narrazione prosegue si fanno strada anche le ragioni che lo hanno reso così: dal dolore per la perdita della moglie all’atteggiamento distaccato e quasi anaffettivo della famiglia fino –tornando indietro negli anni- alla sua atroce esperienza di guerra, che ha fomentato in lui un forte senso di indifferenza mista a sospetto nei confronti del “diverso”: alterità che inizialmente viene percepita in quella gente di colore che ha “invaso” il suo quartiere fino a farlo diventare un ghetto. Il processo di ravvedimento parte proprio dal rapporto che questi instaura, suo malgrado, con i membri di una famiglia hmong, suoi vicini di casa, e in particolare con il ragazzino Thao e sua sorella. I pregiudizi e i sospetti si trasmutano a poco a poco in sinceri e profondi sentimenti di amicizia, che colmano nella vita di Kowalski il vuoto lasciato dalla sua famiglia. Ed è qui che emerge in tutta la sua forza l’apodittico messaggio morale del film al quale dovrebbe ispirarsi la “nuova America”: un America che non deve più limitarsi a fondarsi sull’istituto della famiglia –spesso e volentieri foriero più di pene e disgrazie che di altro- ma su un senso di fratellanza più puro, che affondi le proprie radici in rapporti umani veri e sinceri, che prescindano da qualsiasi tipo di sovrastruttura (razze, ceti, famiglia ecc…). E questo messaggio è già racchiuso nel nome stesso –di origine polacca- del protagonista: uno “straniero” che è diventato parte integrante della società americana.
Come in “Changeling” (nel quale l’idea del rinnovamento risiede nella necessità di sconfiggere e superare l’arroganza del Potere attraverso l’azione del singolo, che incontra successivamente il sostegno della collettività), anche in “Gran Torino” è l’atto-sacrificio di una persona a innalzarsi a paradigma da cui attingere la lezione per il futuro. La scena finale in cui Kowalski s’immola costituisce un bellissimo momento cinematografico, nel quale si ribadisce con estremo impeto, e in maniera netta e definitiva, il senso dell’insegnamento che vuole trasmettere il regista: una sorta di passaggio del testimone alle nuove generazioni, per le quali l’esempio della non-violenza varrebbe come l’unica forma di ribellione, capace di generare cambiamenti.
Dopo “Changeling”, Eastwood torna a proporre –e in maniera più marcata- la sua idea di cinema c.d. classico dagli esiti concilianti: il film è diretto con estrema classe e sobrietà, senza il ricorso ad espedienti melodrammatici, e ciò in virtù della (giusta) vena ironica che percorre tutta la narrazione, controbilanciando gli effetti della tragedia. Non c’è buonismo nè si avvertono edulcorazioni, ma alla fine –come è successo per “Changelig”- ho avuto la sensazione che la visuale di Eastwood rischiasse di sconfinare nell’utopismo.