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LE CHIAVI DI CASA regia di Gianni Amelio

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kafka62     6½ / 10  27/02/2018 13:58:50Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
L'inquadratura finale de "Le chiavi di casa" possiede una straordinaria somiglianza con quella che chiudeva "Il ladro di bambini" (in entrambi vi sono due personaggi ripresi di spalle, seduti, l'uno intento a consolare l'altro). La cosa non mi sembra casuale e senza significato: Amelio sembra infatti aver recuperato, dopo una pellicola ("Così ridevano") molto elaborata sotto il profilo della sceneggiatura (anche se anomala in questo senso, in quanto in essa acquistava importanza soprattutto il tempo che scorre fuori dallo schermo e che non vediamo), un modo di fare cinema che privilegia gli sguardi, i gesti, il non detto, piuttosto che la storia e le parole, proprio come nel film del 1991 che lo aveva fatto conoscere a tutto il mondo. Questo approccio costituisce il merito maggiore del film, perché gli permette di affrontare il delicato soggetto nella maniera più giusta, ossia con rispetto, onestà e pudore piuttosto che con enfasi melodrammatica, patetismo ricattatorio e sentimentalismo strappalacrime (che sono senza dubbio i rischi più grandi che corrono i film sulla malattia e sull'handicap).
Amelio inoltre non è solo intellettualmente onesto, ma anche cinematograficamente originale. Lo è per almeno cinque motivi. In primo luogo, mette in scena un personaggio, quello di Paolo, il quale, pur nella cruda e straziante realtà del suo handicap, riesce a essere spesso autenticamente divertente (come nella scena in cui sciorina all'orecchio del basito infermiere tedesco l'intera formazione della sua squadra del cuore). Secondariamente, è intelligente a lasciare il finale aperto, perché è indubbiamente facile accettare la malattia per un breve periodo di vacanza, difficile è poi – e il pianto finale di Gianni ne è la dolorosa conferma – conviverci per anni e anni. In terzo luogo, il regista non esita a mettere lo spettatore di fronte a verità scomode e assai poco consolatorie, soprattutto grazie allo straordinario cameo di Charlotte Rampling, la quale interpreta il ruolo della madre di una disabile di venti anni, apparentemente serena e sicura di sé, ma che in una splendida confessione notturna rivela di provare invidia per chi, come Paolo, ha un handicap più "normale" di quello della figlia e, addirittura, di arrivare a pensare in certi momenti "perché non muore?". Ancora, Amelio è originale nel mettere in primo piano il personaggio del padre, il quale realizza un lento e graduale processo di recupero e di riappropriazione della paternità, una sorta di "rimozione della rimozione" del lontano episodio della nascita del figlio che, coincisa con la morte della madre del bambino, lo aveva fatto fuggire dalle proprie responsabilità (del resto, sulla difficoltà di essere genitore, sono ancora illuminanti le parole della Rampling: "è paradossale, ma la malattia proteggerà suo figlio dagli altri; è lei che dovrà prepararsi invece a soffrire, se vorrà restargli al fianco"). Infine, "Le chiavi di casa" descrive molto bene la solitudine e l'isolamento in cui la malattia confina le sue vittime, e lo fa grazie a un'ottima trovata, quella di ambientare la vicenda in un paese straniero, in cui tutto (dalla lingua incomprensibile agli ambienti estranei dell'ospedale e dell'albergo) contribuisce a creare quel permanente senso di disorientamento che è facile leggere negli occhi spersi nel vuoto di Kim Rossi Stuart. Alla fine il film di Amelio risulta estremamente emozionante per l'impressione di verità e di umanità che sa restituire, anche se il giudizio esula da valutazioni più specificamente tecniche sulla sceneggiatura, sulla fotografia o sul montaggio che, per ovvie ragioni, vengono consapevolmente subordinate alla descrizione semi-documentaristica di un rapporto padre-figlio tanto normale da riuscire, paradossalmente, a essere sorprendente.