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RE PER UNA NOTTE regia di Martin Scorsese

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kafka62     7½ / 10  09/05/2018 15:00:56Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
"Meglio essere re per una notte che buffoni per tutta la vita", la frase con cui Rupert Pupkin si congeda dal pubblico del Jerry Langford Show, può essere adottata come lo slogan che meglio sintetizza lo spirito dell'odierna società dei mezzi di comunicazione di massa, in cui la fama non viene più sentita soltanto come un'opportunità eventuale da cogliere al momento propizio, ma come un inalienabile diritto dell'individuo da rivendicare ad ogni costo. Pupkin, il bizzarro (ma non assurdo) protagonista di questo piccolo film di Scorsese, porta alle estreme conseguenze tale asserzione e, pur di apparire come ospite d'onore nello spettacolo televisivo di successo, non esita a rapire e a minacciare di morte il popolare conduttore della trasmissione. Il lieto fine, come di prammatica, non manca, ma l'itinerario esistenziale che, in tanti altri film del genere, biografici o di fantasia, conduce i personaggi al successo, appare qui rovesciato: non sono infatti la fede paziente nel proprio lavoro, la perseveranza o la fortuna a sollevare Pupkin dalla mediocrità in cui si dibatte, bensì, molto più prosaicamente, la sua stolida megalomania e la sua arrogante testardaggine. Scorsese e lo sceneggiatore Zimmerman sono più cinici che mai: lungi dal mostrare di credere, con falsa e ipocrita ingenuità, che il successo e la celebrità sono sempre un meritato premio alla virtù, essi svelano non solo che la formula "compaio in televisione, quindi esisto" è immorale e perversa, ma anche che essa è, allo stato attuale delle cose, remunerativa e appagante. Anche se da una prospettiva molto particolare, quella dell'apologo che sconfina nel grottesco, "Re per una notte" impartisce una vera e propria lezione etica, che raggiunge il suo obiettivo in tanto in quanto rifiuta ogni didascalismo, ogni tentazione moraleggiante, ogni seriosità intellettuale.
Quello di Scorsese è un film leggero, scorrevole, paradossale, e in alcuni momenti addirittura farsesco (negli uffici di Jerry Langford le guardie del servizio di sicurezza inseguono Pupkin come in una vecchia comica degli anni '10, l'idea di Pupkin di far leggere a Langford le proprie richieste su dei cartelli girati in successione si rivela ridicola perché i fogli sono o capovolti o sistemati nell'ordine sbagliato oppure cadono inopportunamente per terra, e così via). Lo stile è in apparenza scialbo e impersonale, ma la mia convinzione è che ciò sia stato voluto di proposito da Scorsese per dare un'impronta marcatamente televisiva alle immagini, in accordo con la natura dell'intreccio. Così le luci sono artificiali, eccessive e annullano qualsiasi contrasto, i colori sono netti e appariscenti, le scenografie funzionali e post-moderne; in questo contesto di matrice televisiva si può inquadrare persino la tendenza a interrompere sul più bello l'azione (il fermo immagine iniziale su cui scorrono i titoli di testa) per poi farla proseguire qualche secondo dopo. "Re per una notte", quindi, non solo non è un filmetto di poche pretese, come può sembrare a prima vista, ma, riflessioni sociologiche a parte (le quali forse, per essere davvero memorabili, dovevano essere più convenientemente sviluppate su una durata più breve, magari un semplice episodio), rivela una coerenza stilistica insospettata, mantiene una struttura narrativa per nulla classica e riserva infine ai cinefili più sensibili diversi sussulti d'autore (come le frequenti commistioni tra realtà e fantasia, con la onnipresente e petulante voce della mamma – sempre fuori campo – che interviene a infrangere intempestivamente i sogni ad occhi aperti di Pupkin).
Benché spesso magnificare la recitazione di un film significa per molti versi palesare involontariamente l'assenza nel film stesso di altri motivi di interesse più specificamente cinematografici, non si può negare che "Re per una notte" – film d'autore, come si è appena visto, anche se non tra i migliori di Scorsese – si regge soprattutto sulla prova di due grandi attori: Jerry Lewis e Robert De Niro, entrambi calati in un ruolo del tutto diverso da quello che li aveva resi famosi nell'immaginario collettivo. Il primo, abbandonati i panni logorroici e buffoneschi dell'indimenticabile Picchiatello, mostra a sorpresa il suo lato tragico, la solitudine del grande artista, la dignità solenne, muta e quasi rassegnata di fronte all'insolente invadenza di un pubblico fagocitante e possessivo (sintetizzato a meraviglia dal personaggio nevrotico e maniacale di Sandra Bernhard). Egli rappresenta in fondo l'altra faccia della medaglia, quella più dolente e umana, del luccicante mondo dello star system, al punto che questo semidio idolatrato dalle folle merita forse maggiori simpatie del giovane rivale che, cavalcando il sogno tipicamente americano dell'uomo che si è fatto dal niente, vuole spodestarlo. Quello di De Niro è dal canto suo un personaggio di un'ambiguità insuperabile: amabilmente insopportabile, genialmente cialtrone, ossequiosamente invadente, suadentemente arrogante, ingenuamente scaltro, il Rupert Pupkin di "Re per una notte" ha tali e tante sfaccettature da esaltare appieno le doti istrioniche dell'attore newyorkese, che ben altri ruoli aveva finora rivestito nei film di Scorsese e che appare trasformato persino fisicamente (con quei baffetti che gli danno un'aria così squallida e insignificante).