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UN ANGELO ALLA MIA TAVOLA regia di Jane Campion

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amterme63     7½ / 10  21/01/2010 22:01:06Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Raramente ho visto un film che si occuppasse così esclusivamente e così a lungo di una singola persona. Sono 2 ore e mezza filmate che raccontano la storia di Janet Frame, poetessa neozelandese che ha avuto una storia simile a quella di Alda Merini, passando circa 8 anni in un manicomio. Se ne segue la vita da bambina, poi adolescente e infine adulta, quando finalmente riceverà i riconoscimenti dovuti al suo grande talento.
La sua persona appare continuamente in tutte le scene. Vediamo in pratica solo lei; il resto del mondo è appena abbozzato e appare sempre e solo se è in relazione alla sua vicenda.
Si potrebbe immaginare di arrivare a sapere tutto e di capire fino in fondo il carattere del personaggio. E invece no. La Campion segue una particolare tecnica di racconto e di montaggio “a spezzatino” che impedisce il coinvolgimento approfondito dello spettatore nell’intimità del personaggio. In pratica la vicenda è un susseguirsi ininterrotto di brevi o brevissime scene di pochi minuti di fatti separati fra di loro, sia temporalmente che soggettivamente. La Campion è poi allergica ai flashback e agli inserti non diagetici (sogni, scene simboliche – penso a un film tipo “Shine”, molto più approfondito di questo).
Ad esempio in una breve scena seguiamo la notizia di una disgrazia e vediamo la protagonista angosciata. Uno stacco improvviso ci porta in un’altra scena, dopo lasso di tempo imprecisato, che ci mostra la protagonista fare cose normalissime come se nulla fosse. Cosa è rimasto dentro di lei del fatto precedente? Che significato ha avuto nella sua psiche? Non c’è nulla che trasmetta queste impressioni. Purtroppo il racconto troppo spezzettato e banalizzante dà un’idea molto neutra della sua vita. Tra l’altro, nonostante il susseguirsi frenetico di scene, il ritmo è molto lento e assente di tensione. Le uniche illuminazioni provengono dalla voce fuori campo della protagonista che ci racconta come si sentiva in certe occasioni, ma ciò avviene molto raramente.
Comunque, per deduzione, qualcosa si riesce a capire della vita della protagonista. L’infanzia è stata segnata da rigidità educative che l’hanno tarpata e intimorita. Nessuna amicizia, nessuna confidenza. Molti lutti tragici in famiglia. Poi la sua grande passione per i libri e la poesia che la porta a isolarsi dal mondo in una patologica timidezza. Ed è qui che qualcuno di cui si fida le consiglia di “curarsi”. Ma perché a queste persone così “affidabili” è venuta un’idea del genere? Niente, tutto scorre veloce, ineluttabile ed inesplicato. La vicenda della “malattia” e del manicomio si svolge in pochi minuti (eppure sono stati 8 anni!) in cui ci si chiede cosa ci faccia una persona così pacifica e assennata in mezzo a degli esagitati. Eppure dal suo animo riesce a sgorgare poesia, sensibilità, arte, ma noi lo sappiamo in maniera riflessa dalle notizie di successi letterari e non penetriamo mai in questa sua spiccata sensibilità (“Shine” invece ci riusciva).
E’ alla distanza che quindi emerge alla fine la figura di Janet Frame in tutta la sua umanità, i dolori, le delusioni, le battaglie. La parte finale è la più bella. Dai, dai, il personaggio di Janet ci commuove e ci colpisce. Peccato, peccato, sentire quasi niente delle sue poesie.
La Campion supplisce comunque con l’estetismo dell’immagine che qui appare assai più misurato rispetto a “Lezioni di piano”. Il sospetto però anche qui è quello che voglia semplicemente mostrare la propria bravura, piuttosto che indagare nei meandri del personaggio.
Che dire. Bello, alla fine lascia colpiti e per niente annoiati. Solo che si poteva fare molto di più con molto di meno.