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FINO ALL'ULTIMO RESPIRO regia di Jean-Luc Godard

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Invia una mail all'autore del commento Zazzauser     8 / 10  31/01/2011 06:12:48Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Oddio, da dove cominciare?
Mi trovo davvero in difficoltà nel commentare un film come questo, per cui sono costretto ad andare per punti pur rischiando di sembrare troppo schematico piuttosto che tentare di farne una recensione organica...

- Considerato uno dei tre manifesti della Nouvelle Vague assieme a I 400 colpi di Truffaut e Hiroshima Mon Amour di Resnais, "Fino all'ultimo respiro" narra la storia del ladro di automobili Michel Poicard, braccato dalle autorità per aver ucciso un poliziotto, e del suo strano rapporto amoroso con Patricia, una piccola e graziosa ragazza statunitense trapiantata a Parigi.

- Un film di un importanza storica incredibile, assolutamente spiazzante per l'epoca: la sceneggiatura è esile, frammentaria, disconnessa, quasi improvvisata; tutti i canoni cinematografici dell'epoca vengono stravolti, a partire dal montaggio che alterna lunghissimi piani sequenza a scene dalla costruzione talmente sincopata ed ellittica che sembra che alcuni fotogrammi siano realmente mancanti e che tutto sia frutto di un grossolano errore. Il tutto è improntato ad un marcato realismo (in parte ereditato dal neorealismo italiano) che mira ad eliminare il più possibile gli artifici cinematografici: scene girate con pochi mezzi, per strada o in camere prive di eccessiva scenografia, uso privilegiato della luce naturale a scapito dell'illuminazione artificiale (in questo mi ricorda un po' il Dogma 95 di Von Trier e Vinterberg). Forse per la prima volta viene fuori la nozione di “autore cinematografico”, ovvero il regista (il “metteur en scène”) è considerato il padre autentico ed unico della pellicola e quello che viene mostrato è la sua inimitabile e personale visione - in accordo con la “politique des auteurs” canonizzata dalla Nouvelle Vague (ed esplicata tralaltro proprio da Godard nel '54 nei Cahiers du Cinema)

- Continuo per Godard è il confronto con il passato. Jean Paul Belmondo, seduttore, affabulatore, sempre con la sigaretta in bocca ed avvolto di fumo, sembra l'equivalente europeo di Humphrey Bogart, di cui lo stesso Michel cerca di proporsi come emulo ("Questo sì che è un duro"). Ma l'icona di Bogart era morta con lui tre anni prima, e con essa tutto il cinema americano classico di cui Bogey era uno degli emblemi. Godard sembra voler dire che quel personaggio non potrà più tornare a vivere e che tutto quel che ne rimane è il pietrificato Colosso d'Argilla a cui aveva dato vita nel suo ultimo film-testamento del '56: Belmondo, per quanto si sforzi di esserlo, per quanto cerchi di confrontarsi con quel colosso in un intenso scambio di sguardi (tant'è che è proprio la locandina di quel film che Michel guarda mentre dice la famosa frase) non è Bogey, l'eroe che esce sempre e comunque vincente dalla storia: è uno squinternato delinquente che muore a fine pellicola...

- Il problematico raffronto col passato riguarda, anche se in maniera molto meno esplicita, anche il personaggio femminile di Jean Seberg: esplicativa la scena in cui lei si confronta con la fanciulla di un dipinto di Renoir, padre del grande esponente del realismo poetico Jean Renoir, chiedendosi se sia più bella lei o la fanciulla. Anche la Seberg, nel suo look e nella sua bellezza inusuale per una protagonista femminile - che incarna oltretutto certi topoi della femme fatale hollywoodiana - non è più la diva americana degli anni '40 e '50.

- Godard vuole rompere con il passato, ostentare questa rottura, ma soprattutto - a differenza di Truffaut - esige davanti a sé uno spettatore distaccato, critico, attento, oggettivo. Vuole uno spettatore che si renda conto della finzione filmica anzichè uno spettatore che si immedesimi nella storia, "annullandosi" in essa. E quindi persegue questi scopi cercando di provocare lo straniamento (il famoso Verfremdungseffekt) canonizzato da Brecht nella sua poetica teatrale. La "trasparenza della rappresentazione filmica" viene assicurata con il già citato montaggio antinarrativo e antilineare e con trovate quali la cosiddetta "infrazione del quarto muro" (Belmondo che si rivolge direttamente alla macchina da presa)

- A livello contenutistico il film è sostanzialmente un'analisi di un rapporto di coppia, una riflessione sull'amore nell'era moderna. La "cerebralità" dei dialoghi della coppia Belmondo-Seberg mi ha ricordato molto le tormentate e al contempo comiche vicissitudini portate sullo schermo da Woody Allen, in un perenne tira e molla e dialoghi serrati, pungenti, sardonici e a volte a tal punto bizzarri dall'arrivare al surreale.
Ma al contempo forse alla base di tutto c'è una delle questioni più problematiche dell'umanità ed una delle tematiche principe riguardanti l'uomo moderno ed il suo rapporto con la realtà: l'incomunicabilità. Incomunicabilità col Mondo e con le persone. L'ultimo, meraviglioso scambio di battute che fa da sfondo alla morte di Belmondo a fine pellicola recita così:

Belmondo: C'est vraiment dégueulasse. (E' veramente uno schifo)
Patrizia: Qu'est ce qu'il a dit? (Cosa ha detto?)
Il poliziotto: Il a dit que vous êtes vraiment "une dégueulasse". (Ha detto che sei veramente “una schifosa”)
Patrizia: Qu'est ce que c'est "dégueulasse"? (Cosa vuol dire “schifosa”?)

Per inciso, la traduzione effettuata dal doppiaggio italiano per il dialogo non rende bene l'idea originaria: “Déguelasse” è un termine gergale, derivante dal verbo “dégueler” (vomitare) che può funzionare sia come sostantivo che come aggettivo. E allora mille possono essere le interpretazioni: Belmondo si riferiva all'intera situazione, al Mondo, a Patrizia che lo ha consegnato nelle mani dei persecutori, o a che altro? Non si capisce realmente, fatto sta che il poliziotto intende la frase rivolta direttamente a Patrizia. E come se non bastasse, Patrizia non conosce neanche il significato di quella parola.

Detto questo, c'è da dire che è un film difficile da digerire, da apprezzare, da comprendere ed accettare per quello che è e non solo per quello che rappresenta per la storia del cinema: non possiede la potenza emozionale de I 400 colpi, la storia è quasi nulla, tutto sembra rivolto ad una ricerca spasmodica ed esclusiva dell'infrazione dei canoni stilistici e ad un compiaciuto formalismo piuttosto che ad una volontà di rendere più solidi i contenuti; ma forse è vero che il fascino di certe opere sta proprio nel loro limite... e comunque amo i film che mi fanno riflettere, pensare e discutere con me stesso: per cui viva Godard e Fino all'ultimo respiro!