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SUSSURRI E GRIDA regia di Ingmar Bergman

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kafka62     10 / 10  27/04/2018 10:07:24Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Una statua in primo piano ripresa di spalle, una vecchia villa circondata da alberi che emerge a fatica dalla bruma, ancora alberi immersi nella nebbia, con la stessa statua vista ora in lontananza. Le prime inquadrature di "Sussurri e grida" sono autunnali, malinconiche, silenti, e quasi si confondono con dei fotogrammi fissi tanto sembrano sospese in una atmosfera di immota irrealtà. Da queste si passa inavvertitamente agli interni, dove la macchina da presa panoramica lentamente su pendole e orologi, il cui lugubre e ossessivo ticchettio sembra suggerire per contrasto che il tempo si è definitivamente fermato in quella casa. Due successive inquadrature ci mostrano una donna assopita su un sofà e, nella stanza a fianco, un'altra donna scompostamente sdraiata sul letto. Un estenuato primo piano del viso di quest'ultima, che si trasforma impercettibilmente in una smorfia di indicibile sofferenza, rivela che la donna è malata e sta soffrendo. La breve sequenza descritta è esemplare: grazie a essa Bergman ci introduce "alle soglie della morte", e per far questo non ha bisogno di parole, di spiegazioni, di lunghe introduzioni o di dialoghi usati solo in funzione esplicativa. Con poche immagini, silenziose ed essenziali, egli riesce a creare un climax molto preciso, a presentare i tratti principali dei personaggi (le altre due donne entreranno in scena subito dopo), a scendere insomma con stupefacente facilità dal generale al particolare. Non solo, ma in questo inizio è già contenuto il fondamentale tema del contrasto tra desiderio e realtà. Appena è in grado di scendere dal letto, Agnese (la donna malata) scrive nel suo diario: "E' lunedì mattina presto e sto soffrendo. Le mie sorelle Karin e Maria mi assistono a turno". Ma questa affermazione è contraddetta dalla successiva inquadratura di Maria, negligentemente addormentata a pochi metri e del tutto ignara delle crisi notturne della sorella (al punto che quando Karin e la domestica Anna entrano per visitare l'ammalata, Maria dice loro che Agnese ha passato una notte tranquilla).
L'irriducibile iato tra desiderio e realtà è una tematica costante del film, che investe non solo la dimensione del presente, ma anche quelle della memoria e del trascendente. "Sussurri e grida" è un film proustiano, in cui il passato viene continuamente sublimato attraverso la soggettiva (re)interpretazione dei ricordi. Riandando con il pensiero alla madre, morta da più di vent'anni, Agnese confessa che ella "sapeva essere severa, quasi crudele", eppure nel ricordo di adulta arriva a comprenderne la noia, l'impazienza, la malinconia. In tal modo, il "tempo perduto" dell'infanzia diventa ora "tempo ritrovato", ricordo consolatore, lenimento dei tormenti del presente. Allo stesso modo, nel diario di Agnese compaiono frequentemente annotazioni di momenti felici: "Giovedì 30 settembre. Ho avuto il regalo più bello che una persona possa ricevere in vita sua. Il regalo ha molti nomi: solidarietà, amicizia, calore umano, affetto". E ancora: "Venerdì 3 settembre. Le mie sorelle Karin e Maria sono venute a trovarmi. E' meraviglioso essere di nuovo insieme. Io mi sento rivivere…". Proprio quest'ultimo brano, su cui si innesta la leggiadra sequenza conclusiva del film, in cui le tre sorelle si dondolano sull'altalena colme di reciproco amore e tenerezza e il bianco trionfa finalmente sui cupi colori che fino ad allora avevano dominato (il rosso e il nero), mi sembra però la prova più evidente che la felicità più volte affermata da Agnese ("E pensai: qualunque cosa accada, questa è la felicità. Non posso desiderare niente di più. Ora, per qualche istante, posso assaporare la pace e sento di dover essere grata alla mia vita, che mi dà tanto") è solo una mistificazione, una menzogna detta a se stessi, un chiudere gli occhi di fronte alla realtà. Il fatto che Bergman abbia collocato questa sequenza dopo quelle, strazianti, della morte di Agnese e quelle, fors'anche più angosciose, che mostrano la putrefazione dei rapporti tra Karin e Maria, anziché all'inizio, come sarebbe stato cronologicamente possibile, rende questa mia asserzione ancor più evidente: dopo aver conosciuto quale nido di vipere sia la famiglia e aver constatato come la vita sia un interminabile calvario, le parole di felicità di Agnese assumono un significato rovesciato e quasi autoironico.
Non esiste alcun "posto delle fragole" per i nostri personaggi, nessuna palingenesi è più possibile per loro e le rare epifanie che Bergman dissemina per via hanno solo l'effetto di creare un elegiaco contrappunto con la realtà. Da ciò deriva quel profondo senso di nostalgia di cui tutto il film è pervaso, dalla musica di Chopin fino alla casa di bambola che ricorre nei sogni di Maria. Quando i personaggi sono spogliati delle loro sovrastrutture razionali e abbandonati alle ingovernabili forze dell'inconscio, ecco che il passato emerge nella sua dimensione più autentica, quella dell'inappagamento, del vuoto non più colmabile. Negli accessi più terribili della sua malattia, Agnese invoca il ritorno alla culla, al grembo materno e solo l'amorevole soccorso di Anna, che riveste un ruolo vicario della madre e che è pronta a denudarsi il petto per offrire il suo seno alla sofferente, è in grado di darle un conforto. Tra Agnese e Anna si realizza un vero e proprio transfert "positivo": come Agnese vede in Anna la figura della madre, così Anna trasferisce su Agnese l'immagine della figlia morta in tenera età. La bellissima immagine che chiude il sogno di Agnese e che fa venire in mente una rappresentazione della Sacra Famiglia (Anna tiene tra le sue braccia Agnese come la ******* Gesù deposto dalla croce) sembra fissare definitivamente le due donne in questa ambigua eppure pudicissima relazione.
Oltre che un film sulla memoria, "Sussurri e grida" è anche un film sul silenzio di Dio, anche se in maniera più attenuata e sfumata del solito (per quanto possa apparire attenuato e sfumato in Bergman un tema che è ossessivamente presente in tutte le sue opere). La claustrofobica immanenza della vicenda è interrotta per la prima volta dal sermone che il pastore pronuncia ai piedi del letto in cui giace il cadavere di Agnese. In questo momento dolentemente bergmaniano, nel quale la camera panoramica sui volti dei quattro personaggi, assorti di fronte al mistero della morte, si alza una disperata implorazione a Dio, che è al tempo stesso una ammissione di impotenza e una invocazione di aiuto: "Agnese, mia cara bambina, ascolta quello che ora ti dico. Prega per noi ancora rimasti su questa terra oscura e immonda, sotto un cielo vuoto e impassibile. Deponi il tuo pesante fardello di dolore ai piedi di Dio e supplicalo di darci il suo perdono. Imploralo che ci liberi dalle nostre angosce e debolezze, dai nostri dubbi più profondi, pregalo di dare un senso alla nostra vita". Sembra di udire nuovamente le parole di Antonius Block ne "Il settimo sigillo", ma qui a pronunciarle non è un uomo qualunque, bensì un rappresentante di Dio sulla terra. Sono passati più di quindici anni, ma Bergman non è riuscito ancora a superare la problematica e travagliata fase della "fede nel dubbio" (o sarebbe meglio dire del "dubbio della fede"), né mai più vi riuscirà. Il cielo continua a rimanere sordo alle pressanti richieste di una comunicazione-comunione con gli uomini, e malattia e morte si trasformano in inquietanti punti interrogativi destinati ad amplificare l'atroce latitanza di Dio.
Private di una qualsiasi giustificazione trascendente, la malattia e la morte si palesano in "Sussurri e grida" in tutta la loro fisicità e crudezza. Bergman non ci risparmia (come aveva del resto già fatto ne "Il silenzio") alcun particolare dell'agonia di Agnese: gemiti, rantoli, smorfie di dolore, urla laceranti e disumane, convulsioni, conati di vomito, membra scomposte e contratte. La morte di Agnese, interminabile, insostenibile, allucinante per il suo esasperato realismo, è una delle morti più atroci nella storia del cinema, superata forse solo da quella del protagonista della "Trilogia" di Terence Davies. La morte cinematografica può diventare facilmente oscena e scandalosa. Se ne era già reso conto Bazin quando, equiparando l'atto sessuale alla morte, affermava che "l'uno e l'altro sono alla loro maniera la negazione assoluta del tempo oggettivo: l'istante qualitativo allo stato puro. Come la morte, l'amore… non lo si rappresenta senza violazione della sua natura. Questa violazione si chiama oscenità. La rappresentazione della morte reale è anch'essa un'oscenità, non più morale come nell'amore, ma metafisica… Spettacolo intollerabile non tanto nel suo orrore oggettivo quanto per una specie di oscenità ontologica". Lo stesso Bergman è consapevole di questo rischio: "La morte recitata e la sofferenza descritta – avverte – diventano facilmente indecenti, oscene". Eppure, in "Sussurri e grida", la morte acquista una sorta di sacralità, di purezza: nell'orribile dramma di Agnese non c'è alcun sadismo né traccia di voyeurismo e neppure il tentativo (pur umanamente comprensibile) di esorcizzare la sofferenza, ma al contrario il profondo rispetto, laico e religioso insieme, di chi non può fare a meno di rispecchiarsi in quel mistero ineludibile.
Gli ultimi istanti di vita di Agnese, con quello sguardo dolce che cerca un'ultima volta le persone care intorno a sé, sembra preludere a una sorta di liberazione, di pacificazione definitiva. Ma Bergman ancora una volta ci sorprende e disorienta, trasferendo inaspettatamente l'angoscia e la sofferenza terrene dell'uomo nell'aldilà. E' la stupenda sequenza del sogno di Anna a riproporre e perpetuare l'orrore della morte al di là della morte stessa. Con una naturalezza che è propria solo degli incubi (ma è davvero un incubo? "Forse per te è un sogno, ma non per me"), Agnese appare ad Anna come una non-morta, che continua a invocare aiuto: "Non riesco a dormire, non riesco a lasciarvi. Sono così stanca. C'è nessuno che possa aiutarmi?… Resta con me finché passi questo orrore. Tutto è così vuoto attorno". Il sogno può essere interpretato in termini psicanalitici, cioè come ripresentazione nell'inconscio di Anna, Karin e Maria delle immagini del giorno precedente, nell'ambito di quell'incessante lavorio interno che consiste nel rimuovere la morte, nel troncare ogni legame con la persona scomparsa: in questo senso va sicuramente interpretato il rifiuto delle sorelle di rimanere ancora accanto alla defunta. Assai più interessante mi sembra però considerare la sequenza nell'ottica di una esacerbazione della visione pessimistica di Bergman. La morte appare come la suprema solitudine, come la perpetuazione di uno stato di sofferenza connaturato all'uomo e che l'uomo è destinato a subire in eterno. Anche una volta varcata la fatidica soglia della morte, Dio continua a rimanere ostinatamente nascosto. E se Woody Allen in "Mariti e mogli" riesce ancora a ironizzare sulla cosa (parafrasando la famosa frase di Einstein, "Dio non gioca a dadi con l'universo", afferma: "Forse non a dadi, ma certo Dio gioca almeno a rimpiattino"), Bergman è qui sommamente tragico: nel momento in cui invoca Dio, il regista svedese contemporaneamente lo nega e in questa assenza, in questo "lutto del cielo" che confina l'uomo in una immanenza angosciosa e intollerabile, egli vede la causa del dolore dell'umanità e la prova della mancanza di senso della vita.
Se all'inizio mi ero soffermato a parlare della sorprendente capacità di Bergman di scendere dal generale al particolare, ora non va sottaciuta l'altrettanto grande abilità nell'adoperare il procedimento inverso, dal particolare al generale. Quando descrive minuziosamente l'agonia di Agnese, infatti, Bergman non fa che parlare della Morte; quando esplora i reciproci rapporti delle sorelle, egli mette in scena la Famiglia; le nevrosi dei personaggi sono nevrosi di un'intera società. C'è sicuramente nel film un intento di critica della società e dell'istituzione familiare, calata ovviamente nell'unica realtà che Bergman è capace di rappresentare in maniera convincente, vale a dire il mondo della borghesia. Appare ben presto chiaro che la vera personalità di Maria e di Karin è assai lontana dal ruolo di sorelle devote e affettuose che entrambe si impongono di recitare. I due lunghi flash back che le riguardano hanno proprio lo scopo di esplicitare questa divaricazione e di smascherare impietosamente la loro falsa coscienza e la loro ipocrisia. Nel primo flash back, in un dialogo così tipicamente bergmaniano (in cui la perfidia e la malignità sono sussurrate a denti stretti e dissimulate sotto una parvenza di educata cortesia), il medico di famiglia, da tempo amante di Maria, così descrive la donna: "Guardati allo specchio. Sei bella. E forse anche più bella di allora. Ma sei tanto cambiata… I tuoi occhi hanno sguardi languidi e sfuggenti. Potresti guardare tutto e tutti apertamente, senza crearti una maschera. La tua bocca ha assunto un'espressione insoddisfatta, famelica. Prima era così dolce. Il tuo viso è pallido, la pelle incolore. Sei costretta a truccarti. La tua bella fronte ampia, spaziosa, ha quattro rughe sopra ogni sopracciglio… Lo sai da dove ti vengono queste rughe? Dalla tua indifferenza, Maria. E questa lieve curva che va dall'orecchio alla punta del mento non è nitida come un tempo. Questo significa che sei superficiale e indolente. E lì, alla radice del naso. Perché ora c'è tanto sarcasmo, Maria?… C'è troppo sarcasmo. Troppo scherno. E sotto ai tuoi occhi inquieti, mille rughe impietose, secche, quasi inavvertibili di noia. E di impazienza". Durante questo lungo e impietoso ritratto psicologico (che Maria rovescia specularmente sul dottore: "Io lo so dove vedi queste cose… Le vedi in te stesso. Perché noi siamo uguali, tu ed io"), la macchina da presa rimane fissa sul primo piano di Liv Ullman, bravissima nell'accompagnare le parole fuori campo con un sorriso gelido e sprezzante (così come era stata brava poco prima nel far comparire sul suo viso una smorfia di malcelata delusione quando il dottore si era ritratto di fronte ai suoi baci appassionati).
Nel secondo flash back è mostrato invece il disgusto di Karin nei confronti del marito e della propria stessa vita, ridotta a un insignificante rituale fatto solo di convenzioni, formalismi, gesti esteriori ed inautentici ("E' un insieme di bugie. Non è altro che un insieme di bugie", ripete ossessivamente). L'insofferenza di Karin riesce a trovare sbocco solo in un assurdo, disperato e masochistico gesto di ribellione: per autopunirsi e contemporaneamente punire l'odiato consorte, la donna introduce una scheggia di vetro nella vagina, emettendo gemiti di dolore e insieme di godimento, quindi davanti all'attonito marito, si cosparge con voluttà la bocca di sangue. Ingrid Thulin (così come Liv Ullmann nella scena descritta in precedenza e Harriet Andersson in quella iniziale, pure citata) è stupenda, specialmente quando, passandosi lascivamente la lingua sulle labbra, riesce a toccare livelli di sublime perversione.
All'opposto di Karin e Maria c'è la serva Anna, maternamente disponibile e generosa, simbolo di una condizione umana semplice e naturale. Quanto le due sorelle sono astiose e nevrotiche, tanto Anna è colma di una istintiva, immotivata gioia di vivere: il suo corpo florido sprigiona salute, la sua bocca stacca con gusto grossi bocconi di mela e le sue guance si gonfiano energicamente per soffiare sul fuoco della stufa. C'è una piccola figura nella letteratura russa dell'Ottocento che può essere accostata ad Anna, ed è il Gherasimov de "La morte di Ivan Iljc". Come nel raccconto tolstojano questo contadino è il solo conforto alla sofferenza di Ivan Iljc, così in "Sussurri e grida" Anna è l'unica persona a rimanere vicino ad Agnese, e l'immagine di Gherasimov che tiene i piedi del padrone sollevati sulle sue larghe spalle è altrettanto bella di quella di Anna che si scopre il senso per metterlo sotto la testa della moribonda a mo' di cuscino. Bergman tocca qui un tema quanto mai delicato: mettendo a confronto l'orribile agonia di Agnese con le impotenti premure di Karin e soprattutto di Maria, egli dimostra senza pietismi o sentimentalismi come sia difficile aiutare la gente che soffre, anche quelli cui più si vuol bene. Di fronte al crudo realismo di "Sussurri e grida", gli edulcorati drammi di "Love story", di "Voglia di tenerezza" e delle tante lacrimevoli imitazioni hollywoodiane, con i personaggi che muoiono compostamente in scena, magari abbracciati alla persona amata, hanno il sapore di fastidiose mistificazioni. Mi ritornano in mente le parole di Ivan Karamazov ne "I fratelli Karamazov" di Dostojevskij (ancora uno scrittore russo): "Non ho mai potuto capire come sia possibile amare la gente che ci sta vicino. E' precisamente tale gente che non è possibile amare, forse chi ci sta lontano sì. Ho letto non so dove a proposito di Giovanni il Misericordioso (un santo), che lui, una volta, essendo venuto un uomo affamato e intirizzito dal freddo, e avendolo pregato di riscaldarlo, lo fece coricare accanto a sé nel suo letto, lo abbracciò e cominciò ad alitargli nella bocca che puzzava terribilmente a motivo di un'orribile malattia. Sono persuaso ch'egli fece così nel patimento d'una menzogna e per obbligo d'amore, o per imporsi una mortificazione. Per essere un uomo bisogna che resti nascosto, ché, quando mostra il volto, cade l'amore". L'immagine di Maria che, durante l'ultima crisi della sorella, si gira dall'altra parte, coprendosi il viso con le mani, è forse il commento più significativo a questo brano.
Nella straordinaria ricchezza di motivi (etici, sociali, religiosi) che contraddistinguono "Sussurri e grida", assume un posto di rilievo l'interpretazione in chiave esistenzialista e psicanalitica dell'uomo. I personaggi del film (sia quelli principali sia quelli secondari, e con la sola eccezione di Anna, non a caso l'unico personaggio non borghese del gruppo) non sono capaci di comunicare tra loro, di instaurare rapporti che vadano al di là degli algidi convenevoli di prammatica, e questa incapacità appare quasi antonioniana nella sua radicalità priva di sbocchi. Bergman porta alle estreme conseguenze questo discorso, affrontando i due modi di comunicazione più naturali e spontanei: il toccarsi e il parlarsi. Da una parte, i personaggi reagiscono alle richieste di un approccio fisico (un abbraccio, una carezza, una stretta di mano) vuoi con indifferenza (Maria nei confronti del marito), vuoi con imbarazzo (il dottore nei confronti di Maria), vuoi con disgusto (Karin nei confronti di Maria, a cui dice: "Odio qualsiasi tipo di contatto!") o vuoi addirittura con spavento (Maria nei confronti di Agnese morta). Per contro, Agnese cerca più volte il tiepido contatto con il corpo di Anna, e nel sogno chiede invano alle sorelle di tenere le sue mani nelle loro. Dall'altra parte, Bergman prende alla lettera questa incapacità di comunicare, mostrando più volte Karin e Maria mentre si sforzano di parlare senza che alcun suono esca dalla loro bocca; e quando le due sorelle, apparentemente riconciliate, si aprono finalmente l'una all'altra, una musica d'archi si sovrappone alle loro voci, cancellandole. La complessità dei personaggi bergmaniani si traduce in una irrisolvibile ambiguità psicologica, di cui è oggettiva espressione l'illuminazione parziale dei volti delle donne (metà bui, metà rischiarati), simbolo, più che di doppiezza o di falsità, della dissociazione psichica dell'individuo. Il richiamo a "Persona" e alla famosa sovrapposizione dei volti di Elizabeth Vogler e di Alma è tanto inevitabile quanto scontato.
Oltre alle luci e alla fotografia, Bergman utilizza con finalità psicologiche anche i colori, soprattutto il rosso. Tappezzerie, tappeti, coperte sono di un rosso cupo, sovraccarico, sfarzoso, e rossi sono pure i numerosi fondu. Bergman ha ammesso che questa scelta non è stata casuale, "perché dall'infanzia mi sono sempre immaginato l'interno dell'anima come un'umida membrana tinta di rosso". Resta il fatto che l'uso preponderante del rosso risulta alquanto congeniale all'atmosfera morbosa e malsana del film, oltre a creare suggestivi contrasti con l'altra tonalità chiave dell'opera, il bianco, simbolo della purezza e dell'illusione (bianchi sono ad esempio i vestiti delle donne ed i fiori). Le dissolvenze rosse hanno sicuramente una funzione semantica, ma in questa sede è più interessante evidenziare la loro funzione strutturale. Bergman toglie alla dissolvenza il suo carattere tradizionale di passaggio temporale o di semplice segno di interpunzione, e le conferisce invece il ruolo, non puramente esteriore, di incorniciare (e quindi in qualche modo introdurre) le storie secondarie (il sogno, i flash back) all'interno della storia principale. Il film ha infatti una struttura che si può definire musicale: c'è un tema (la malattia di Agnese) e tre movimenti (ognuno dei quali abbinato a un personaggio femminile), e le dissolvenze danno all'insieme dell'opera ritmo e respiro.
Ciò che rende particolarmente importante "Sussurri e grida" (non solo all'interno della filmografia bergmaniana) è il mirabile equilibrio raggiunto tra la dimensione letterario-filosofica e quella figurativo-formale, equilibrio tanto più difficile da ottenere in quanto la prima, lo si è visto, è di rara efficacia e complessità. Ma Bergman è un regista geniale, che sa dare alle sue pellicole migliori quell'impercettibile tocco (quell'unicum così connaturato al concetto stesso di opera d'arte) in grado di distinguerle da qualsiasi altra. Non è cosa di cui si possa parlare facilmente. E' qualcosa che attiene sicuramente alla maestria nel dirigere gli attori (mai in nessun film si sono viste tre attrici così brave nel reggere i primi piani e nel recitare con ogni più piccola piega del viso), alla grande funzionalità stilistica della macchina da presa (che, pur con radi e semplici movimenti, è in grado di creare effetti a scoprire – ad esempio, il particolare della culla nella stanza di Anna – o di passare con soavità dalle persone alle cose – dal volto di Agnese che odora una rosa bianca alla stessa rosa languidamente appoggiata sul tavolino – e, viceversa, dalle cose alle persone), alla "invenzione" di una vera e propria dialettica del suono (più che la musica, la vera colonna sonora è fatta di ticchettii di orologi, di suoni di carillon, di vento e, ovviamente, di sussurri e di grida), alla perfetta corrispondenza tra significanti e significati e ad altre cose ancora, che però non possono da sole spiegare in maniera esaustiva il fascino più profondo del film, se non ricorrendo in extremis a quella che è forse la caratteristica distintiva dei geni: la capacità di inseguire con tenacia e pazienza visioni enigmatiche (come quella delle tre signore vestite di bianco in una stanza rossa che ha perseguitato Bergman per mesi), di abbandonarsi a ispirazioni improvvise e incontrollabili, di annodare fili invisibili, per giungere alla fine a cogliere l'essenza stessa della vita e della morte.