caratteri piccoli caratteri medi caratteri grandi Chiudi finestra

IL PROFETA regia di Jacques Audiard

Nascondi tutte le risposte
Visualizza tutte le risposte
Invia una mail all'autore del commento LukeMC67     9 / 10  17/04/2010 15:19:59Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
A salvarsi non sono mai gli "eletti" o i "giusti" bensì i peggiori, i "cattivi", quelli che sanno adattarsi. Su questa difficilmente digeribile conclusione si consumò il dramma prima spirituale e poi fisico di Primo Levi. Lo scrittore torinese si riferiva ai campi di concentramento, ma, mutatis mutandis, ogni luogo ristretto di detenzione o comunque di convivenza forzata rispetta queste terribili leggi primordiali ("Arcipelago Gulag" non era da meno, tanto per rimanere in tema...). Il carcere moderno non sfugge a queste atrocità, nonostante i (goffi) tentativi di umanizzarlo per renderlo quello che dovrebbe essere: luogo di recupero e non di mera punizione.

Audiard pigia l'acceleratore e senza troppi fronzoli, con poche, decise "pennellate" iniziali ci fa piombare dentro uno degli inferni moderni (la prigione, per l'appunto) raccontandoci del classico poveraccio di origine maghrebina finito probabilmente per ingenuità in carcere e comunque non in grado di difendersi nonostante le formali premure con cui viene accolto nel mondo penitenziario (l'impotente avvocato d'ufficio, l'inutile e beffardo questionario d'ingresso, il primo giorno di "ambientazione" in una cella speciale, ecc.). A questi "zuccherini", buoni per tener tranquilla la coscienza di chi sta fuori, si contrappone la durissima realtà del cellulare (che sembra un insieme di gabbie per cani), la durezza del regolamento carcerario e, soprattutto, la cattiveria umana che lì si esprime ai massimi livelli senza alcun freno o ritegno.
A questo punto il gioco diventa esattamente quello proposto materialmente dal boss còrso (uno straordinario Niels Arestrup) al "piccolo" Malik (l'altrettanto stupefacente Tahar Rahim, nuova star del cinema d'oltralpe): uccidi o sarai ucciso. Scatenata la primordiale legge di sopravvivenza, ogni morale crolla e tutto giustifica il fine ultimo. Così cresce Malik, "profeta" dotato di una straordinaria forza intuitiva, grandissima intelligenza nell'apprendimento, tutta la forza e l'energia di un ventenne.
Ma la sua crescita (come quella di ognuno di noi) passa per traumi successivi dai quali lui impara prima e meglio degli altri soprattutto padroneggiando all'inverosimile la comunicazione verbale (parla 3 lingue "sapendole parlare" ad ogni autoctono) e quella non verbale fino a diventare un "boss" in piena regola. Con qualche sentimento in più (da mettere da parte quando serve), ma pur sempre boss.

Cinematograficamente, l'autore del notevole, originale thriller "Sur mes lèvres" ("Sulle mie labbra" cui questo "Profeta" mutua il tema della comunicazione come mezzo affermativo di sé), si muove a suo agio nello stile ormai collaudato della docu-fiction. Ma l'occhio del cinefilo smaliziato noterà che la costruzione di ogni singola sequenza è tutt'altro che casuale e tutt'altro che semplice: osservate attentamente la famosa sequenza dell'omicidio con la lametta, per esempio; oppure quella della consegna della valigetta al boss còrso; o ancora quella della resa dei conti a casa di Khalif l'Egiziano. A questo stile, reso ancor più "attendibile" e televisivo dai fermo-immagine con i nomi dei personaggi nel bel mezzo delle azioni, fanno parte di apparenti marziani caduti sulla terra le varie sequenze oniriche che, dall'omicidio con la lametta fino al finale, "irrompono" a mo' di visioni nella mente del "Profeta" e negli occhi di noi spettatori. In quegli intermezzi, prima appena accennati, poi via via sempre più pregnanti (magistrale la sequenza in cui alla visione dei daini fa seguito l'estremo realismo dell'incidente stradale in cui viene investita una di queste bestiole a interruzione violenta di uno dei dialoghi più tesi del film), Audiard mostra davvero la differenza tra "fare cinema" e " fare televisione"; tra l'impostura della "docu-fiction" e l'onestà del tacito accordo tra autore e pubblico che c'è nella "fiction"; tra falsa (im)moralità e Morale (anche se scomoda).

Nota di merito, infine, alla colonna sonora che spazia tra rap gridati, melodie arabeggianti discrete, cover interessantissime (su tutte la canzone dei titoli di coda). L'autore? Vi dice niente il nome di Alexandre Desplat? Ebbene sì: oltre ad aver già lavorato con Audiard essendo stato l'autore delle musiche di "Sur mes lèvres", è lui ad aver firmato gli spartiti hitchcockiani de "L'uomo nell'ombra" di Polanski... Che dire? Quando la classe non è acqua...
Cagliostro  20/04/2010 01:51:12Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
mi associo ai complimenti di Luca. commento interessante e ricco di spunti di riflessione.
Invia una mail all'autore del commento LukeMC67  20/04/2010 15:24:54Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Ragazzi, non mi fate arrossire, per favore! Per me scrivere è un semplice diletto, un'attività distensiva, nulla più.
Un grazie a Cagliostro per la puntuale ricostruzione delle vicende della "Brezza di mare" còrsa e dei suoi boss nelle carceri francesi (vedi la risposta a Rand). In effetti il film di Audiard, visto da un francese o da chi sa di cose francesi, acquista una attualità e una virulenza se possibile ancor più forti di noi che lo guardiamo con occhi maggiormente distaccati e dunque più pronti a coglierne i significati reconditi.
amterme63  17/04/2010 17:14:56Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
La prima cosa che faccio quando entro in questo sito è andare a vedere se ci sono tuoi nuovi commenti. Sei molto generoso, Luca. Ci regali delle impressioni e dei pensieri molto belli e profondi, da qualsiasi cosa tu riesca a vedere. Ce li "regali" perché non è da tutti dedicare il proprio tempo personale a spiegare e a stimolare riflessioni per gli altri. Soprattutto in maniera semplice, scorrevole e divertente come fai tu.
Grazie davvero.