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L'ALBERO DEGLI ZOCCOLI regia di Ermanno Olmi

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ULTRAVIOLENCE78     8½ / 10  15/11/2008 21:16:24Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Rispetto all’epico ed enfatico “Novecento” di Bernardo Bertolucci, “L’albero degli zoccoli” può essere visto come l’altra faccia della medaglia, i cui segni distintivi risiedono nel realismo e nella sobrietà (non saprei dire però quale dei due preferisco). All’intreccio ben definito del primo (che si incentra sulla vicenda di Alfredo e Olmo, su cui fa da sfondo l’evoluzione, nella prima metà del novecento, dei rapporti tra latifondisti e servi), inoltre, si contrappone qui una soluzione narrativa dal taglio quasi documentaristico che non si focalizza su una storia determinata e circoscritta, ma che segue generalmente l’esistenza, cadenzata dall’avvicendarsi delle stagioni, di una piccola comunità di contadini bergamaschi di fine ottocento, formata da quattro famiglie che alloggiano nella stessa cascina sotto un unico padrone. Dall’interno di questo microcosmo viene descritto meticolosamente lo svolgersi della vita contadina, fatta di sfruttamento, sacrifici e duro lavoro; ma anche di estrema vitalità (a cui fa da contraltare l’immagine smorta dei benestanti che assistono alle sonate al pianoforte del figlio del padrone) e di momenti di gioia che trovano nella semplicità la loro fonte (bellissima la scena nella stalla del contadino che racconta una storia, circondato da un gruppo di donne, uomini, ragazzi e bambini che ascoltano rapiti dalla sua capacità affabulatoria).
Olmi, ovviamente, non lesina anche sugli aspetti più aspri della vita nei campi (che si riflettono soprattutto su come vengono trattati gli animali); ma ciò non menoma l’aura di umanità che emerge dalla narrazione delle diverse scene (di estrema delicatezza i momenti che mettono in evidenza la solidarietà manifestata dalla comunità nei confronti di un mendicante, nonché quelli che descrivono il nascere e lo sviluppo della storia d’amore tra due giovani del luogo). Umanità che alla fine, però, si scontra con l’impotenza generale di fronte alla cacciata di una famiglia –la cui vicenda apre e chiude il film: segno di una inesorabile ed ineluttabile sottomissione dei poveri ai ricchi.
E’ un inno alle piccole e semplici cose (“domeniche del villaggio”, riti religiosi, superstizioni, credenze popolari ecc…), che riscattano un’esistenza condannata alla fatica e all’indigenza.