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IL CONFORMISTA regia di Bernardo Bertolucci

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kafka62     8½ / 10  25/03/2018 19:52:03Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Nel suo capolavoro del 1983, "Zelig", Woody Allen ha inventato il più bel personaggio di conformista mai portato sullo schermo, quello di un ometto timido e complessato il quale, ossessionato dall'idea di piacere a tutte le persone che lo circondano, inizia ad un certo punto della sua vita ad assumere le loro stesse fattezze (diventando volta a volta negro tra i negri, cinese tra i cinesi, grasso tra i grassi). Ebbene, al culmine della sua patologica crisi di identità, Zelig si rifugia in Germania e si mimetizza alla perfezione (siamo nel pieno degli anni 30) all'interno del partito nazionalsocialista di Hitler. L'episodio è estremamente significativo, perché Allen ha riassunto in una semplicissima idea di sceneggiatura (la quale, volendo, può anche essere vista soltanto come una gag, come un exploit di pura comicità paradossale) uno dei concetti fondamentali per comprendere la storia del secolo scorso: quello, cioè, che il fascismo è stato (ed è tuttora, nelle sue espressioni camuffate) la massima espressione del conformismo sociale, l'ideologia capace di offrire a ognuno la possibilità – tutto sommato tranquillizzante – di far parte di un organismo sovraindividuale in cui ogni singolarità viene cancellata nel nome di un'ortodossia dogmatica e irrefutabile. "Il conformista" di Bertolucci (e, prima di questo, l'omonimo romanzo di Moravia) si fonda proprio su questo assioma. Il protagonista, Marcello Clerici, cerca infatti di riscattare la propria presunta anormalità per mezzo dell'appartenenza al partito fascista e dell'adesione a un ideale condiviso da una maggioranza di persone in grado di non far mai venire meno la certezza di stare dalla parte giusta. Questa volontà di annullamento di sé viene a coincidere con una pressoché totale soppressione della responsabilità individuale: è il meccanismo per cui un'azione o un comportamento intrinsecamente immorali vengono sublimati e trovano la loro giustificazione nella coscienza collettiva attraverso una sorta di legittimazione suprema. Marcello accetta così di uccidere un oppositore del regime come naturale risarcimento del delitto commesso quand'era fanciullo, e al tempo stesso come prova di ammissione alla normalità. In risposta alle interrogazioni del confessore, Marcello afferma, in una delle scene-chiave del film: "Voglio che il perdono me lo dia la società. Sì, mi confesso oggi per la colpa che commetterò domani. E' il sangue che lava il sangue. Il prezzo che mi chiederà la società, io lo pagherò". In questa garanzia di assoluzione, che giunge non da Dio ma dalla collettività, risiede probabilmente la fascinazione profonda del fascismo, e più in generale di ogni sistema politico totalitario.
Nell'affrontare questo tema di fondo, il romanzo privilegia una dimensione scopertamente simbolica. L'anormalità di Marcello è vista come una sorta di peccato originale, che il protagonista cerca incessantemente di espiare attraverso il raggiungimento di una rassicurante normalità. Ma la normalità, per Moravia, è impossibile, o per meglio dire la normalità altro non è che l'impossibilità dell'innocenza, mentre al contrario l'uomo nel corso della sua vita cerca l'innocenza proprio in una presunta normalità (rappresentata agli occhi di Marcello da Giulia e dal suo mediocre mondo piccolo borghese). Su tutto ciò incombe ineluttabilmente il peso del destino, della fatalità, che impedisce all'uomo di compiere delle scelte autonome e rende inadeguato il suo ruolo nel mondo.
Nel film non si rinviene alcuna traccia di questo moralismo di stampo metaforico, in quanto Bertolucci preferisce procedere in altre direzioni, più concrete e maggiormente funzionali ad un discorso in chiave politica. In primo luogo si assiste a una sorta di sottolineatura, di enfatizzazione, a tratti anche semplicistica, di temi emblematici e di luoghi comuni (già presenti, ma in maniera più sfumata, nel romanzo), quali la virilità o la follia. Marcello sceglie il fascismo, partito virile e maschio (anzi, maschilista) per eccellenza, anche per tentare di nascondere agli altri la sua latente omosessualità. Inutilmente, perché – come è impietosamente confermato dal rifiuto di portare con sé prima e di utilizzare poi la pistola assegnatagli in dotazione, oggetto dal fin troppo evidente significato fallico – egli non riuscirà a portare autonomamente a termine la missione e a conformarsi a quell'immagine ideale del camerata fascista, freddo, cinico e sicuro di sé, incarnata con schiettezza dal Manganiello di Gastone Moschin, per il quale "invertiti, ebrei e vigliacchi" sono un'unica razza da combattere ed eliminare. Dietro a questa facciata di virilità, il fascismo mostra però gli inconfutabili segni del disfacimento, della malattia e della follia: Italo, ideologo del fascismo, è cieco, il padre di Marcello, picchiatore fascista della prima ora, è internato in un manicomio, il federale di Ventimiglia ha la scrivania inopinatamente ricoperta da centinaia di noci, e lo stesso Marcello (un Trintignant splendidamente ambiguo) ha improvvisi accessi di insania (davanti al superiore di Ventimiglia si punta la pistola alla tempia, a Parigi si nasconde tra i cespugli di un giardino pubblico, e così via). C'è una sorta di tara, insieme fisica e psichica, che Bertolucci fa gravare sul fascismo, quasi ad accentuare e rendere ancor più irrevocabile il suo personale giudizio di condanna.
La vera importanza dell'operazione bertolucciana di rilettura del romanzo risiede però in altre argomentazioni di gran lunga più personali, in particolare nello scarto insanabile tra apparenza e realtà da una parte e nell'attualizzazione dei motivi politici dall'altra. Per quanto riguarda il primo aspetto, il quasi contemporaneo "Strategia del ragno" aveva già offerto uno splendido esempio di ambiguità insita nella verità storica, mostrandoci un martire dell'antifascismo che alla fine del film si rivelava contro tutte le aspettative un traditore, santificato dai compagni per non indebolire la causa. Non dissimilmente, nel finale de "Il conformista" (completamente reinventato rispetto all'originale, dove il protagonista muore con la sua famiglia durante un'incursione aerea), Marcello accusa pubblicamente il "resuscitato" Lino del proprio delitto (e l'amico Italo di essere fascista), reagisce cioè al 25 luglio addossando ad altri, come in vero e proprio transfert, la propria colpa. Se questo comportamento trova una ben precisa giustificazione psicanalitica, perché Marcello attribuisce inconsciamente la sua anormalità, e quindi anche l'itinerario esistenziale fin lì percorso per riscattarsi da essa, al trauma subito nell'infanzia (tanto è vero che dopo la rimozione di questo trauma egli può dare finalmente libero sfogo alla propria natura repressa), esso assume altresì una valenza socio-politica, diventando l'emblema di quell'ipocrita trasformismo che ha caratterizzato nel dopoguerra la conversione di milioni di italiani (in particolar modo del ceto borghese, al quale vengono indirizzati gli strali più velenosi del regista) da fedeli sostenitori del fascismo a convinti antifascisti. Dopo la sua isterica delazione, Marcello si tuffa non a caso in mezzo a un corteo di bandiere rosse, facendo capire che il fascista di ieri è pronto a diventare il democratico di domani. Da ciò discende il secondo aspetto di cui si diceva, cioè la non evidentissima eppur profonda attualità del film. Oltre a disseminare il film di alcuni elementi inequivocabilmente contemporanei (ad esempio, la casa di Quadri, così anticonformista e così diversa dall'abitazione piccolo-borghese di Giulia, assomiglia a un collettivo rivoluzionario anni 60), Bertolucci sembra individuare proprio in questa subdola e camaleontica capacità mimetica una delle ragioni ultime della debolezza della democrazia italiana.
L'ambiguità tematica de "Il conformista" trova una perfetta corrispondenza nella sua ambiguità stilistica. Anzitutto la differenza formalmente più sconcertante tra pellicola e pagina scritta è data dalla struttura narrativa, che nel film è particolarmente complessa, in quanto si articola in una lunga serie di flashback e scarti temporali. La sequenza di apertura vede Marcello in una stanza d'albergo parigina, apparentemente solo (ma un successivo movimento di macchina – ecco un ottimo esempio di svelamento progressivo del senso di una scena – rivela che al suo fianco c'è il corpo nudo di una giovane donna addormentata), in attesa di una telefonata. Dal successivo incontro con Manganiello, in una grigia mattinata invernale che dà di Parigi un'immagine per nulla stereotipata, si dipana una lunga e frammentata rievocazione, la quale ripercorre gli avvenimenti che hanno condotto Marcello e Giulia nella capitale francese e che si riallaccia agli avvenimenti "in diretta" solo verso l'ultimo quarto del film. Anche se personalmente devo esprimere alcune riserve circa la validità dei numerosi raccordi temporali (in un solo caso mi sembra che il regista sfrutti pienamente le possibilità offerte dall'inconscia emersione di frammenti del passato, quando cioè dall'episodio in cui Manganiello esorta Marcello a risalire in auto si passa con estrema naturalezza alla sequenza in cui Lino adesca il protagonista bambino, e da questa alla scena della confessione), e pur non giudicando Bertolucci un grande sceneggiatore (prova ne è l'epilogo del 25 luglio 1943, inserito troppo bruscamente al termine della lunga sequenza dell'uccisione dei coniugi Quadri), si intuisce nella costruzione narrativa de "Il conformista" il tentativo di raccontare una storia in maniera tutt'altro che convenzionale. Del resto, l'utilizzo dei flashback è un procedimento molto caro al regista, come dimostrano gli esempi di "Novecento" e de "L'ultimo imperatore". Il primo inizia quando la guerra è appena finita e vengono catturati gli ultimi fascisti, mentre il secondo si apre con il tentativo di suicidio dell'ex uomo più potente della Cina, l'ultimo sovrano dell'Impero Celeste appunto: lo sviluppo di entrambi è operato nell'ambito di una incorniciatura capace di racchiudere al suo interno nientemeno che diversi decenni di storia.
La più volte conclamata ambiguità bertolucciana è però presente soprattutto nella messa in scena del film. All'interno di una composizione classicamente perfetta (che anzi può essere assunta come esempio di un decadentismo languido e raffinato, non meno dannunziano de "La pioggia nel pineto" recitata in treno da Marcello), Bertolucci fa trapelare infatti un che di malsano e di anormale: dalle inquadrature sghembe (quando Marcello viene involontariamente pedinato dalla automobile di Manganiello) agli spazi grandiosi epperciò opprimenti dell'architettura littoria, dalle conturbanti scene saffiche tra Anna e Giulia per finire alle foglie morte riprese dalla cinepresa a terra mentre vengono sollevate dal vento, tutto concorre a richiamare un'atmosfera di morbosità, di decomposizione e di sfacelo. Sempre sospesa tra autentico e inautentico, tra reale ed onirico, la messa in scena de "Il conformista" sembra in ogni momento riflettere su se stessa: quando Marcello si reca nel bordello di Ventimiglia il movimento della macchina da presa va a chiudere la sequenza su un paesaggio dipinto, dalle vaghe reminiscenze magrittiane, mentre durante il viaggio in treno verso Parigi dietro al finestrino scorrono sul trasparente dei paesaggi dai colori altrettanto artificiali. La stessa sovrabbondante presenza di specchi (la vetrata nella sala di registrazione dell'EIAR, lo specchio della scuola di ballo di Anna, il finestrino dell'auto nella sequenza che prelude all'uccisione della donna) introduce con non casuale insistenza un diaframma insuperabile tra il protagonista e la realtà. Quest'ultima non è conoscibile dall'uomo (e dallo spettatore) se non nei termini ingannevoli e fallaci di un riflesso evanescente e incerto, ed il recupero del mito platoniano della caverna durante il primo incontro tra Marcello e il professor Quadri sembra esserne la metaforica conferma. Anche la fotografia di Vittorio Storaro, basata sul chiaroscuro e sul contrasto tra i colori caldi e morbidi degli interni e i colori freddi e spenti degli esterni, insinua non pochi elementi di ambiguità: all'inizio del film Marcello viene mostrato a sprazzi dall'illuminazione intermittente di un neon, nella claustrofobica stanza di Quadri vengono chiuse le persiane (e quando queste sono riaperte, l'ombra di Marcello svanisce come un fantasma all'apparire della luce del giorno), perfino nella casa di Giulia la luce entra a strisce attraverso le finestre semichiuse, ed è infine in un fitto bosco in cui i raggi del sole stentano a penetrare che si consuma l'ultimo atto della tragedia.
A dispetto di quanto una visione superficiale del film può far supporre, la vicenda de "Il conformista" risulta filtrata attraverso il prepotente soggettivismo dell'autore. "Il conformista" è inequivocabilmente un film di Bertolucci, ne riflette alla perfezione sia le tematiche preferite (l'eros, l'ambivalente rapporto con il padre) sia il personalissimo universo cinefilico (prove ne sono le numerose citazioni, dall'insegna con il titolo di un film di Renoir, "La vie est à nous", alla frase godardiana del professor Quadri – "Ora il tempo della riflessione è finito, comincia quello dell'azione" – passando attraverso Laurel e Hardy) e la sua stessa idea di cinema (in un'intervista, Bertolucci ha legittimato l'ipotesi che nel viaggio di Marcello in Francia è adombrato psicanaliticamente il suo desiderio di "uccidere" Godard). Vi sono inoltre ne "Il conformista" sequenze che trovano la loro ragion d'essere esclusivamente nella sensibilissima ispirazione del regista, scene che, pur non strettamente essenziali nell'economia del film, vengono dilatate a dismisura fino ad assurgere a un'importanza extradiegetica che non è possibile ignorare. Penso soprattutto alla sequenza del ballo (senza dubbio la più riuscita dell'intero film), con lo scandaloso tango tra Giulia ed Anna e con quella danza collettiva al termine della quale Marcello si trova soffocato da una insopportabile calca di gente allegra e spensierata. Del resto, il ballo ricorre in quasi tutti i film di Bertolucci, dalla irridente "Giovinezza" ballata da Athos Magnani in "Strategia del ragno" all'"ultimo tango" di Paul e Jeanne, dalla festa campestre di "Novecento" alla balera emiliana de "La tragedia di un uomo ridicolo", così simile a quella parigina de "Il conformista". Non credo sia esagerato affermare che nel ballo, oltre a una probabile componente di ambiguità, Bertolucci veda soprattutto un rituale in grado di riprodurre in una sintesi perfetta quel difficilissimo equilibrio tra individuale e collettivo, tra regionalità e internazionalità, che è forse la caratteristica più pregnante e singolare del suo modo di fare cinema.