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LA NOTTE regia di Michelangelo Antonioni

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kafka62     8 / 10  18/04/2018 10:54:21Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Con "La notte" Antonioni ci dà la sua personale versione della "dolce vita" italiana a cavallo degli anni '50 e '60: senza i barocchismi, le caricature grottesche, i sentimentalismi e le aperture mistiche che avevano caratterizzato il movie-symbol di Fellini, ma calando al contrario la sua borghesia in un'atmosfera lugubre e mortuaria, che costituisce una delle costanti semantiche più evidenti dell'opera. Essa si apre non a caso con la scena della visita di Lidia e Giovanni all'amico agonizzante in ospedale, la quale – oltre a una funzione autonoma, seppure non molto evidente, come meccanismo propulsore della storia – assume il valore di una vera e propria premonizione. La morte è infatti presente ne "La notte" in tutte le sue forme: morte fisica e morte spirituale, morte dei valori e morte delle illusioni, morte come fine di tutto oppure morte come possibile palingenesi (Lidia: "Stasera vorrei solo morire… almeno finirebbe questa angoscia e inizierebbe qualcosa di nuovo"). La tematica che sta più a cuore ad Antonioni è quella della crisi spirituale incistatasi irrimediabilmente nei gangli vitali della società neo-capitalistica contemporanea: i borghesi che si riuniscono nella villa in Brianza (ma il discorso non può essere circoscritto ad una sola classe sociale, come "Il grido" insegna) sono delle ombre, delle presenze fantasmatiche, dei sonnambuli (l'omonimo romanzo di Broch è significativamente la lettura preferita di Valentina) spogliati dal regista di ogni connotazione che non sia quella del loro fallimento esistenziale, al quale essi cercano inutilmente di sfuggire aggrappandosi a quegli assurdi rituali snobistici (riunioni mondane, vernissage, corse di cavalli) che soli sembrano in grado di garantire loro l'illusione di essere vivi. La festa in Brianza è perfetta nel materializzare il luttuoso sentore che promana da questa emblematica aggregazione di moderna umanità: perfino gli sporadici e improvvisi accessi di vitalità (il bagno degli invitati vestiti in piscina, l'eccitazione di Valentina nel gioco da lei inventato) hanno un che di forzato e di morboso, come se in ogni piccola novità venisse intravisto un pretesto per scrollarsi di dosso questa spaventosa ed esistenziale afasia.
Una funzione analoga è rivestita dall'erotismo: esso è un modo come un altro per fuggire la propria insopportabile condizione umana, per allontanare il momento del confronto con se stessi, per cercare un utopistico e irrealizzabile rinnovamento interiore. In Antonioni si percepisce, con fortissima evidenza, il connubio tra Eros e Tanathos (lo si vede bene, per esempio, nella scena in cui il protagonista incontra la ninfomane all'ospedale). Il corteggiamento di Valentina non ha quindi altra giustificazione che quella di dare a Giovanni l'illusione di poter arrestare il crollo delle false certezze su cui si è fondata fino a quel momento la sua vita, né è motivata diversamente l'avventura di Lidia con il latin lover che l'abborda e la fa salire in macchina con sé. L'amore fisico diventa così l'occasione per un fugace distacco dalla realtà, al ritorno dal quale essa però si rivela ancor più terribile ed angosciosa. La sequenza che chiude il film è una perfetta esemplificazione di questa tesi. Avvinghiandosi a Lidia e unendosi a lei nel prato, Giovanni cerca di scongiurare la fine del loro rapporto, ma questo disperato e frenetico amplesso non fa che segnare in realtà il loro irreversibile e definitivo distacco.
La crisi spirituale della propria generazione non è raccontata dal regista con propositi di critica sociale (Antonioni è un narratore intimista, non un sociologo), bensì con una attenzione privilegiata all'aspetto formale. C'è in lui il tentativo cosciente di rappresentare la crisi mediante il segno immediatamente cinematografico piuttosto che con l'ausilio di un sovrasenso imposto dalla sceneggiatura e dai dialoghi. Anzi, i dialoghi de "La notte" non risultano mai del tutto convincenti (come del resto accade spesso in Godard), farciti come sono di citazioni e di cascami letterari. Battute come quelle che Giovanni e Lidia si scambiano nel finale («Se stasera ho voglia di morire è perché non ti amo più… Vorrei non esistere più perché non posso più amarti». «Se tu dici questo, se vorresti essere già morta, vuol dire che mi vuoi ancora bene». «No, è soltanto pietà») sono di una debolezza sconcertante. Non sorprende quindi che, per risolvere le due sequenze più "parlate" del film, Antonioni ricorra al duplice stratagemma del registratore e della lettera: senza questo escamotage le battute che vengono pronunciate suonerebbero ancor più false e artificiose. Molto più emblematici dei dialoghi risultano invece i silenzi, i gesti non chiarificatori, i tempi morti. Con un découpage che rifugge da una drammatizzazione classica degli avvenimenti (nessun fatto eclatante, se si esclude la morte fuori scena di Tommaso, interviene a giustificare la scelta di seguire da vicino le vicissitudini dei due protagonisti), "La notte" insinua progressivamente nello spettatore un senso di disagio e di dissoluzione. Quello che alla fine emerge con tutta evidenza è l'apatia e la noia di una vita sprecata malamente, e la consapevolezza che nulla può più cambiare questa condizione (Valentina e Giovanni: «Passano le ore e accadono tante cose». «Non è vero, non accade mai niente»).
In questo particolare contesto è l'ambiente ad assurgere a protagonista assoluto, ad essere per così dire ipostatizzato nella stessa misura in cui i personaggi vengono reificati, ridotti a cose in mezzo ad altre cose. Il film abbonda, ad esempio, di inquadrature in cui i protagonisti sono ripresi contro una parete che occupa tutto il campo dell'obiettivo: il senso che si ricava è di schiacciamento, di perdita di dimensionalità, di insignificanza di fronte a un reale che si esprime attraverso le forme geometricamente asettiche di una scenografia postmoderna e disumana. Anche specchi, finestre e vetrate assumono un significato analogo: essi esprimono, più che un'impressione di ambiguità (o di inconoscibilità del reale), una irriducibile frattura, una separazione dalla realtà (la quale viene vista attraverso schermi molteplici e sovrapposti), e, parallelamente, un claustrofobico insabbiamento dei personaggi (i quali solo raramente si trovano in un contesto naturale, e anche in questo caso non hanno mai il cielo sopra le loro teste). Non si può tuttavia dire che l'ambiente perda del tutto ogni immediata riconoscibilità realistica. Anzi, gli assordanti rumori di elicotteri ed aeroplani che solcano il cielo di Milano anticipano fenomenologicamente la sensazione di dissociazione dell'uomo dalla realtà, e, d'altra parte, oggetti come una enorme gru in funzione, un orologio da muro abbandonato per terra o una porta arrugginita non rimandano ad altro che a se stessi, suggerendo un senso di disfacimento e di distruzione che è già insito nella loro materialità, nel loro nudo e ineludibile simbolismo.
Allo stesso modo, la costruzione narrativa, pur essendo del tutto anticonvenzionale, non arriva mai all'astrazione o allo straniamento tipo ciné-roman. Le sequenze de "La notte" non sono legate tra loro da uno stretto nesso di causalità (ad esempio, la sequenza B è introdotta e giustificata dalla sequenza A, e a sua volta introduce e giustifica la sequenza C, e così via), ma mantengono pur sempre (anche se contro tutte le apparenze) un certo grado di connessione logica e di necessità. Così, tra il ricevimento durante il quale viene presentato il libro di Giovanni e la passeggiata di Lidia nelle strade dell'hinterland milanese non c'è un immediato rapporto di causa a effetto. Sta allo spettatore, tuttavia, riempire questa ellissi con una motivazione psicologica che, anche se accuratamente dissimulata dal regista, sicuramente esiste. Parimenti, il prologo – pur essendo l'agonia di Tommaso narrativamente meno forte della scomparsa di Anna ne "L'avventura" o della separazione tra Aldo e Irma ne "Il grido" – è determinante nel far scattare il vacillamento delle false certezze di Lidia e Giovanni, il cui rapporto si rivela d'un tratto usurato e spento: questo, naturalmente, non lo capiamo subito, perché Antonioni bada bene a non sottolineare nulla, ma è sicuramente ricavabile attraverso la ricostruzione psicologica (effettuata, si badi bene, dallo spettatore e non dal regista) degli avvenimenti successivi. D'altra parte, va detto che in altri episodi (penso, ad esempio, al colloquio con la vicina di casa di Giovanni, o all'indugiare della macchina da presa su un uomo alla finestra) non si rinviene alcuna effettiva funzione significante: essi sono lì per la semplice ragione che nella realtà capitano appunto cose simili, che non significano nulla.
Antonioni è lontanissimo dal cinema psicologico, come normalmente lo si intende. Non che i personaggi non abbiano un loro mondo interiore, ma, come si è già accennato, questo mondo viene fuori, anziché da uno scavo in profondità, da una minuziosa osservazione comportamentale. La scoperta da parte di Lidia di non essere più innamorata del marito, ad esempio, anche se non viene esplicitata che nel finale del film, è già tutta racchiusa in quella sua lunga, interminabile passeggiata per i luoghi squallidi e desolati di un passato troppo cambiato per essere ancora accettabile. Anche il senso di incomunicabilità e di solitudine dei personaggi del film, più che dal frequente sovrapporsi dei loro dialoghi (ognuno sembra infatti parlare per proprio conto), si desume assai meglio da certe inquadrature in cui essi si trovano su piani spaziali diversi (ad esempio, Lidia nella terrazza della villa che guarda gli ospiti dall'alto). E' a mio avviso con "La notte" che Antonioni raggiunge la piena maturità di uno stile in cui la forma acquista predominanza fino al punto di diventare essa stessa significato (oltre che l'occasione di riflessione metalinguistica sul ruolo dell'artista nella società contemporanea). Grazie a questo film egli conferma il suo ruolo insostituibile nel cinema italiano e mondiale, proponendosi come il più autorevole cantore della crisi morale della nostra epoca.