kafka62 7 / 10 10/05/2018 11:57:51 » Rispondi Essere dei geni nelle scienze matematiche e allo stesso tempo delle persone felicemente normali non è, a quanto pare, una cosa facile da realizzare. Se qualche sospetto ce lo aveva già fatto nascere Mario Martone con "Morte di un matematico napoletano", ispirato alla tragica figura di Renato Caccioppoli, dopo la visione di "A beautiful mind", biografia del premio Nobel John Nash, sembra non esserci più alcun dubbio. Anche se rischia di apparire un trito luogo comune (quello del genio incompreso, disadattato, selvatico, confinato nella sua elitaria torre d'avorio e leopardianamente condannato a soffrire proprio a motivo del suo ipertrofico talento), la parabola umana di Nash, ammalatosi di una grave forma di schizofrenia al punto da rischiare di dover finire i suoi giorni in un ospedale psichiatrico, sta a dimostrarcelo in tutta la sua drammaticità. Il soggetto sembra fatto apposta per un film hollywoodiano: il brillante studente universitario che inanella un successo dopo l'altro (tra cui una giovane e bellissima moglie), vede crollare a causa di una terribile malattia tutto ciò per cui aveva lottato ( compresa la sua vita privata) e riesce solo in extremis a risollevarsi riguadagnando onori, stima ed affetti, è solo l'ultimo epigono di una lunga serie di eroi cinematografici che prima di lui hanno percorso quell'identico itinerario di ascesa, caduta e risurrezione. In questa prospettiva, il film è l'ennesimo, e neppur troppo originale, inno alla forza dell'amore e della volontà, capaci di vincere, sia pure a fatica e non senza crisi, momenti di scoramento e passi falsi, qualsiasi male e qualsiasi avversità. Nessun cliché melodrammatico è evitato dal regista Howard, compresa una cerimonia di consegna del Nobel strappalacrime. Eppure, "A beautiful mind" riesce a essere un gradino sopra al tipico prodotto medio hollywoodiano, grazie a una invenzione di sceneggiatura che ricorda il recente "The others".
Di tutto ciò che noi vediamo sullo schermo, infatti, diamo per scontata, come sempre al cinema, l'autenticità, e quando dopo più di metà film (nonostante certe scene paranoiche, come il marchio radioattivo apposto sul braccio del protagonista o l'avventuroso inseguimento notturno in automobile, potevano già metterci sul chi vive) scopriamo che John immagina cose, episodi e addirittura personaggi, la rivelazione ci coglie del tutto impreparati. Sapere che il vecchio compagno di stanza al college non è mai esistito o che l'organizzazione spionistica per cui John lavora è solo un parto della sua fantasia malata, ci costringe tutt'a un tratto a rivedere il film in una nuova ottica, e Ron Howard, che ha orchestrato il colpo di scena con una abilità che non ci si sarebbe aspettata da lui, può addirittura approfittarne per superare indenne le insidie narrative (le quali di solito affondano definitivamente le ambizioni di molti film del genere) della malattia e del lungo processo di guarigione.
Russell Crowe è un John Nash praticamente perfetto, capace di dar corpo a tic, manie e idiosincrasie del personaggio senza mai eccedere in istrionismi, e di essere volta a volta un nerd spocchioso e megalomane, un malato disorientato e sopraffatto dai propri incubi e infine un vecchio studioso un po' eccentrico e bizzarro, in una prova di camaleontismo che ricorda le performances più trasformistiche di attori come Dustin Hoffman e Robert De Niro. Dopo averlo visto un anno prima in un film tutto muscoli e vigore atletico come "Il gladiatore", la sua trasformazione in un goffo professore universitario lascia sbalorditi e pieni di ammirazione.