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IL GIARDINO DEI FINZI CONTINI regia di Vittorio De Sica

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kafka62     7 / 10  06/04/2018 19:03:19Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
In un saggio del 1952, André Bazin aveva proposto un ardito (e un po' discutibile) accostamento tra Vittorio De Sica e Marcel Proust, vedendo in "Umberto D." un illuminato esempio di "cinema della durata", dove la continuità del tempo reale non viene sacrificata al racconto. Ben più profondamente proustiani mi sembrano però, a distanza di quasi vent'anni, gli esiti di un'altra opera di De Sica, "Il giardino dei Finzi Contini". La cifra stilistica dominante in questo film è infatti una delicata e pudica elegia della memoria: di fronte all'inarrestabile avanzare di tempi nuovi ed oscuri (la promulgazione delle leggi antisemite, l'entrata in guerra), i personaggi del film si rinchiudono ostinatamente in un mondo, fisico (la villa dei Finzi Contini) e mentale (i ricordi dell'infanzia), simbolicamente al riparo della brutalità della Storia. Diversamente dalla "Recherche", il passato è però inteso qui come "tempo perduto" e non come "tempo ritrovato". Il film è percorso infatti fin dalle prime inquadrature da un senso di fatalità, di catastrofe incombente, che raggiunge il suo culmine nello splendido personaggio femminile di Micol, intelligente e ironica, ambigua e impenetrabile, la cui incapacità di instaurare un positivo rapporto con il futuro (il rifiuto della storia d'amore con Giorgio, la volontaria reclusione nella villa) è soprattutto la conseguenza di una sensibilità che sembra presagire con straziante chiarezza la tragedia che di lì a poco spazzerà via tutto e tutti. Giorgio Bassani, nell'epilogo del romanzo da cui il film è tratto, così descriveva Micol: "Il futuro, in sé, lei lo aborriva, ad esso preferendo di gran lunga le vierge, le vivace et le bel aujourd'hui, e il passato, ancora di più, il caro, il dolce, il pio passato", e De Sica, traducendo visivamente queste impressioni, in un finale pieno di dignità e di commossa partecipazione, dà all'ultimo sguardo della ragazza alle cose (la villa, gli alberi, il cane) che sta per lasciare per sempre la dolorosa intensità di un testamento spirituale.
In virtù di questa vena di crepuscolare malinconia e di sdegno sommesso, che solo raramente (vedi la figura di Alberto-Helmut Berger) si ripiega su se stessa rincorrendo accenti di un languido neoromanticismo, il film di De Sica risulta del tutto all'altezza dell'impegnativo romanzo di Bassani. Sorprende non poco perciò che lo scrittore ferrarese abbia ripudiato la versione cinematografica, ritirando il suo nome dalla sceneggiatura, alla cui stesura aveva collaborato insieme a Ugo Pirro e Vittorio Bonicelli. E' vero che il film si sottomette alla logica del racconto cinematografico tradizionale (rinunciando al punto di vista soggettivo di Giorgio, ricorrendo un po' troppo frequentemente ai flash back, scegliendo di esplicitare certe situazioni – i convegni amorosi tra Micol e Malnate, l'arresto dei Finzi Contini – e infine inserendo arbitrariamente alcuni episodi didascalici – il viaggio di Giorgio in Francia, la cattura del giovane ebreo nel cinema), ma questo rientra in una scelta che, se da una parte "tradisce" indubbiamente l'originale, dall'altro rivendica l'autonomia del cinema nei confronti della letteratura. In ogni caso, lo spirito più intimo e autentico del romanzo rimane intatto, al punto che perfino la magica atmosfera ferrarese non sfigura nelle inquadrature desichiane (le pedalate "fuori mura", l'immagine finale dei tetti della città).
In questo film della sua tarda maturità, De Sica raggiunge dopo tanti anni il livello qualitativo dei celebrati capolavori del neorealismo. "Il giardino dei Finzi Contini" è oltretutto una pellicola stilisticamente molto raffinata. L'obiettivo di Ennio Guarnieri, ad esempio, crea virtuosistici giochi di luce (le acquose immagini iniziali, piene di bagliori e di rifrazioni), ricorrendo ad accecanti controluce che "annullano" i colori e danno alle tonalità bianche una assoluta prevalenza cromatica (accresciuta dai vestiti dei ragazzi che giocano a tennis e dal pallore dei visi degli interpreti). Più di uno stile che sfiora a tratti il manierismo, e al di là di una ricostruzione d'epoca (le canzoni e gli abiti anni 30, i cinegiornali fascisti) e di una descrizione della comunità ebraica (i rituali della Pasqua) appena decorose, ciò che attrae di più ne "Il giardino dei Finzi Contini" è in fin dei conti la sua profonda e toccante umanità. Il film è recitato quasi sottovoce, in sordina (i giovani attori, dalla Sanda a Capolicchio e a Testi si prestano tutti molto bene a questo stile interpretativo), e persino i radi scatti di rabbia sono smorzati, soffocati da un invincibile pudore, che è poi lo stesso pudore con cui De Sica guarda (con uno sguardo questa volta aristocratico e non popolare) alla tragedia di un'epoca e di una generazione, e che gli permette di non scadere mai nel sentimentalismo (quanta dignità c'è nella sequenza dell'abbandono della casa da parte dei Finzi Contini o nell'abbraccio tra Giorgio e suo padre dopo il lungo colloquio notturno, e quanta violenza è per contro insita, nel finale, non tanto nella ottusa brutalità dei fascisti, quanto in piccoli particolari, come l'incauta rottura del vaso o la separazione della famiglia dei Finzi Contini all'arrivo alla scuola, con quell'ultimo, straziante sguardo tra padre e figlia).