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IL TEMPO CHE CI RIMANE regia di Elia Suleiman

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Invia una mail all'autore del commento kowalsky     8 / 10  15/06/2010 21:09:59Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Se le immagini parlano da sole, allora questo "Il tempo che ci rimane" è un grande film, uno dei titoli più importanti del cinema degli ultimi anni, nonostante io l'abbia visto diviso tra irritazione e stupore, estraniamento e coinvolgimento sensoriale.
E' un'affresco lungo quasi 70 anni sull'eterno conflitto tra Israeliani e Palestinesi, con le ragioni dell'uno sull'altro, ma raccontato come una summa metaforica e grottesca della realtà.
Se qualcuno vuole conoscere una via neutrale (ovviamente faziosa) a questa storia può rileggersi l'opera omnia di amos oz o grossman o vedere tutti i (buonissimi) film di Amos Gitai.
Ma Eleiman è un regista diverso, e si vede: un'autore (credo ne esistano pochissimi al mondo) capace di spaziare in mille confini e simulazioni, dallo sguardo metafisico alla fantascienza, dalla tradizione del cinema di denuncia anche nostro (retaggio involontario del primo Pietro Germi o di Francesco Rosi?) all'espressività "nomade" del cinema balcanico, da Resnais passando per il complesso meccanismo "sperimentale" di Tsiao-Hsien e del cinema asiatico.
Troppo per un uomo solo? Ma se esco dal cinema estraniato e coinvolto, se alla fine l'ironia smaccata che dipinge i soldati come ottusi meccanismi in mano al potere provoca in me un forte senso di angoscia, allora questa scelta stilistica riesce a dirci di più di un (pur ottimo) "Il giardino dei limoni", tanto per fare un esempio.
L'autore sceglie la via meno terrena, quasi surrealista, fin dalle prime immagini - è insuperabile la perdìta di direzione del tassista in una notte di improvvisa tempesta, parodiando di tutto, le parate militari come i film americani ("Spartacus") doppiati in arabo, il soldato che fischietta il tema del Padrino o la ritorsione culturale di un refrain di Morricone, il Karaoke e la faticosa "democrazia" Israeliana stempiata di sciovinismo e folklore.
Tutto il mondo di "il tempo che ci rimane" sembra pervaso da uno spirito caustico, apparentemente represso, dove non c'è spazio per la rabbia ma solo per l'estinzione delle radici di un popolo rispetto a un altro (per le stesse ragioni diciamo).
E le immagini, davvero, parlano da sole: se verranno strappate pagine di narrativa al nostro bisogno di comprendere, la corazzata che segue minacciosamente l'indifferenza di un giovane o il dance-party che perpetua il diritto alla vita nonostante il "coprifuoco" dicono molto più di tante parole.
Lo sguardo stralunato e testimone del regista anche come interprete segue infatti il nonsense naturale delle cose, dove non sembra più esistere la promessa di libertà enfatizzata nel lontano 1948.
Forse non troverò un film tanto ricco e controverso neanche fra 10 anni, per quanto il fiume di "visioni" talvolta mi abbia privato fin troppo della mia necessità di leggere il tutto in bianco o in nero