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LA MORTE E LA FANCIULLA regia di Roman Polanski

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hghgg     8½ / 10  26/11/2014 00:09:10Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Credo che "La morte e la fanciulla" tra tutti i più grandi film di Polanski sia quello più sottovalutato e meno considerato forse perché facente parte del periodo diciamo "di mezzo" della carriera del regista (quello che va da "Pirati" a "La nona porta" in pratica) che di solito passa sottotraccia rispetto alla produzione degli anni '60, '70 e dell'ultimo decennio; e se non è questo il meno considerato comunque se la gioca di certo con il suo "Macbeth" del 1971.

Tant'è, resta il fatto che, almeno per me, questo grande esempio di cinema rimane uno dei migliori film di Roman Polanski e guarda caso siamo sempre lì: date a Polanski una manciata di attori (appena tre in questo caso, altre volte sono stati quattro o addirittura soltanto due) e un set ridotto all'osso (qui è un piccolo appartamento soprattutto, e poco altro, come la scogliera o il teatro che vediamo nella prima e nell'ultima sequenza) e lui sarà capace di tenervi incollati allo schermo per tutta la durata del film, sarà capace di scuotervi nel profondo delle viscere, di richiamare in superficie le paure, le tentazioni e gli orrori più nascosti, sarà capace di scatenare l'inferno; tre attori, una casa e Roman Polanski, è quanto basta per terminare la visione con lo stomaco sottosopra.

E pensare che qui Polanski si occupa "solo" della regia e non lo troviamo anche nelle vesti di autore. La solida, tesa e cruda sceneggiatura è opera di Rafael Yglesias in collaborazione con Ariel Dorfman, l'autore dello spettacolo teatrale dal quale il film è tratto; non a caso la sceneggiatura è di chiara impostazione teatrale, tre attori sul palcoscenico a scambiarsi dialoghi serratissimi, ora cruenti, ora commoventi, ora drammatici, a volte perfino ironicamente amaro-divertenti (in qualche modo può quasi sembrare un antenato infinitamente più oscuro di "Carnage") ma in ogni caso sempre molto intensi grazie ad un livello di scrittura altissimo e senza mezzo calo di tensione, che anzi nel finale, al momento della vera confessione del dottor Miranda, diviene quasi insopportabile, di un'intensità pazzesca; davvero notevole il lavoro fatto nella sceneggiatura nel trasporre lo spettacolo dal teatro al cinema.

E per fortuna perché questo è un film tutto basato sulla qualità dei dialoghi, sulla solidità della sceneggiatura e sul talento degli attori; inutile dire che anche questo terzo punto funziona a meraviglia... Questi tre sono entrati nella storia in modo a dir poco perfetto, rendendosi dannatamente credibili (pure troppo, cavolo) nei panni dei loro personaggi e non era facile, visto che sono due inglesi e una nord-americana che interpretano tre sud-americani, essere così credibili e naturali.

Sigourney Weaver è meravigliosa e finalmente dimostra di essere molto più che l'ammazza Xenomorfi per eccellenza; qui c'è invece un'attrice drammatica splendida giunta al punto più alto della sua carriera con quella che è di certo la sua più grande prova d'attrice; meravigliosa e commovente prova pregna di intensità drammatica in cui la Weaver riesce a tratteggiare mirabilmente le tante sfaccettature psicologiche del suo personaggio in un'interpretazione che in certi momenti strappa sinceri applausi e qualche lacrima.

Ben Kingsley è altrettanto mostruoso e in questo caso la parola "mostruoso" è davvero ben utilizzata; l'ho trovato sublime nell'accompagnare l'evoluzione finale del suo personaggio, la sua vera natura che si rivela; mentre per gran parte del film lascia gli onori del palcoscenico alla Weaver, pur recitando la recita del suo personaggio in maniera fantastica, nella straordinaria sequenza sul ciglio della scogliera Kingsley si prende letteralmente la scena, nel momento della vera e terrificante confessione del suo personaggio, con un monologo frutto di una bravura spaventosa. C'è qualcosa di realmente viscido e disturbante in questo grande monologo di Kingsley, qualcosa che mi ha lasciato sotto-sopra, merito dell'intensità che questo eccellente attore è riuscito a donare alla scena, la migliore del film. Un peccato che un attore tanto abile sia troppo spesso impegnato in produzioni di basso livello, avrebbe potuto dare al cinema molto di più di quanto abbia in fatto in effetti e questa interpretazione è lì che ce lo dimostra. Il disgusto, la debolezza, il viscidume, le complessità psicologiche, la malvagità, la soddisfazione e altre cose ancora che Kingsley tira fuori in quel monologo finale rendono questa forse la sua prova migliore (ma con lui è più difficile decidere, bisogna prendere in considerazione almeno anche "Gandhi"). E ci metto anche la sequenza finale, in teatro, con quello scambio di sguardi straordinario, riassunto di tutta l'intensità torci-budella che permea il film, tra Kingsley, la Weaver e Wilson.

Ecco, Stuart Wilson. Così, come prima impressione, si potrebbe pensare a lui come l'anello debole del film, un terzo incomodo nello scontro tra vittima e carnefice, in realtà è un personaggio altrettanto fondamentale, altrettanto splendidamente caratterizzato e interpretato alla perfezione da un Wilson che non fatica a tenere testa a quei due fenomeni che gli stanno di fianco. Bravissimo e ci sono dei momenti, tra lui e la Weaver, che sarebbero da scuola di recitazione tanta la credibilità, l'intensità e la naturalezza delle loro interpretazioni. Una prova misurata e calibratissima quella di Wilson, equilibrata in tutti i momenti del film mai troppo sopra le righe e mai troppo spento.

Da notare l'ottima fotografia (Tonino Delli Colli) cupa e smorta nelle luci a rimarcare non solo il blackout che colpisce la casa ma anche, ovviamente, la cupezza e l'oscurità del male che ricopre come una cappa l'intero film.

Eccoci quindi, grande sceneggiatura, perfetta trasposizione, tre attori in forma smagliante, impostazione teatrale e un set fotografato benissimo e assolutamente essenziale. E Polanski ?

Polanski ci sguazza come Paperon De' Paperoni nell'oro, dirigendo l'orchestra con un'abilità e una maturità espressiva spaventosa, spremendo al massimo gli attori sia nelle parti corali che nei meravigliosi "soli" (e qui il monologo di Kingsley torna prepotente a farsi ricordare, ma ce ne sono anche 2-3 della Weaver che sono da brividi) e realizzando non so nemmeno quante scene memorabili in un'ora e quaranta di film. Tanto sicuro di se, e a ragione, dietro la mdp da regalarsi perfino una splendida scena d'azione "rock'n rolla" , quando torna la luce, parte la musica a palla e i tre cominciano a lottare tra di loro... Mi è preso un colpo, ed è una scena riuscitissima.

E poi una prima mezz'ora di "presentazione" perfetta, mai noiosa con quella cappa d'ansia latente e quella sensazione di tensione e di fragilissima quiete prima di un'inevitabile tempesta. Dopodiché è solo inferno. E qui la storia di Dorfman gli è decisamente venuta incontro. Qui non c'è bisogno di metafore con sette sataniche, di psicosi orrorifiche e follie surreali, ne "La morte e la fanciulla" a Polanski viene consegnato l'orrore più vero, più reale, più umano, più sconvolgente e lui deve solo metterlo in scena da par suo. Il risultato è un film bellissimo che sfiora il capolavoro, un film che narra di una storia inventata, una storia inventata troppo tragicamente simile a tante, infinite storie fin troppo reali avvenute sotto le dittature centro-sud-americane in quei terrificanti anni '70...

Con una sceneggiatura che cattura tutti i punti chiave, l'orrore della dittatura, le terrificanti torture, i diritti umani calpestati, la follia e la crudeltà, i danni e le implicazioni psicologiche, i ricordi, i traumi, l'inutilità della vendetta, lo scambio dei ruoli di vittima e carnefice, la debolezza e la forza umana, la disperazione, il desiderio di giustizia, di verità e cattura il tutto con un equilibrio che posso solo ammirare, e con una regia che tanto bene è collegata e in sintonia con testo e attori non si può che creare qualcosa che scuote lo spettatore nel profondo.

Grazie all'impostazione teatrale non ci sono flashback, tutti i racconti (realistici, drammatici e cruenti da star male...) sulle torture e i soprusi e le angherie e gli stupri, le umiliazioni, ci vengono sparati in piena faccia direttamente dalle parole della Weaver e dalla sua voce ora furiosa, ora spezzata ora disperata e poi ancora dal monologo di Kingsley e ci resta solo sgomento e un gran mal di stomaco perché i dialoghi e gli attori raccontando e recitando ti fanno vivere il tutto con un'intensità che be, almeno a me personalmente ha fatto versare più di una lacrima, di rabbia e di commozione. Una girandola di emozioni che non permette distrazioni, mai.

Credo che su storie trattanti orrori cosi reali Polanski si sia superato soltanto al momento di realizzare "Il pianista" ma solo perché quel film era infinitamente più personale, più sentito, lì non era solo il direttore d'orchestra, quello era il SUO film, più di tutti gli altri.

Tolto ciò i dialoghi, le scene di questo film e le emozioni che mi hanno provocato non le dimenticherò facilmente, i pugni nello stomaco quando sono così intensi lasciano segni profondi, come quelli delle torture che rischi quasi di sentirti a dosso se entri troppo in sintonia con il film.

"La morte e la fanciulla" è uno dei più grandi film di Roman Polanski e uno dei gioielli da ricordare nel cinema degli anni '90, che le parole di Sigourney Weaver e Stuart Wilson vi restino impresse e che non dimentichiate mai il terrificante monologo finale di Ben Kingsley, perché qui siamo di fronte ad uno splendido frammento della storia del cinema.

Da ricordare, sempre. Splendido.