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DIABEL - IL DIAVOLO regia di Andrzej Zulawski

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Crimson     9 / 10  27/09/2012 11:44:00Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Jakub/Myskin/Gesù (?!): Zulawski raccoglie l'eredità artistica di Wajda, ma è uno sperimentatore ben più audace e ostico. La nazione frammentata di 'Diabel' incute ancora più timore rispetto a quella post-bellica di 'Ceneri e diamanti' del suo maestro.
I corsi e ricorsi storici ci insegnano la familiarità delle azioni umane, e dunque di nuovo doppiogiochisti, sete di potere, persone che agiscono senza contemplare motivazioni e conseguenze, spesso per inerzia. Uccidere nei periodi "bui" è così dannatamente semplice, ma il Maciek di Wajda aveva ancora la possibilità di tornare sui propri passi, di riflettere a fondo sulla propria condizione; un atto d'amore avrebbe potuto mutare la sua coscienza individuale, cellula di un organismo collettivo alla deriva e in procinto di convergere verso un regime pluridecennale. Ammettiamo pure che il pessimismo dei due registi sia simile, perché anche Maciek nonostante tutto soccombe, ma è evidente che per Zulawski il delitto ha altra valenza. Egli spinge la riflessione non tanto su un piano di forti contrasti, quanto piuttosto in un clima in cui non si riesce più a distinguere il bene dal male. Jakub è un assassino, ma una mente condizionabile, tanto per cominciare. "Deve" uccidere, epurare per il giuda/diavolo che a sua volta cura gli interessi di chi detiene le redini del potere. Eppure nell'assassinio di Jakub, in cui il "peccato" religioso non è proprio contemplato (il concetto di dio per Zulawaski non è neppure più un interrogativo), "il delitto" giuridicamente inteso si annulla nello stesso momento in cui nella sua natura ambivalente ripristina una giustizia sommaria nel buio di un'epoca transitoria in cui né chi governa, né tantomeno chi cospira è esente da responsabilità individuali sul peso storico degli eventi determinati dalle proprie azioni (e in tutto ciò vi è anche una chiara allusione alla corruzione dell'Arte).
Nel caso specifico di questo film sarebbe interessante conoscere quanto a Zulawski interessasse concentrarsi esclusivamente sulla sua amata/odiata Polonia, piuttosto che focalizzare la riflessione sull'irrintracciabilità di un confine tra bene e male assoluto. In Polonia il film è stato bandito per 17 anni (occhio alle date: 1972-1989..), e in questi casi si giustifica la censura con la presenza di scene forti, per nascondere la provocazione e soprattutto l'allusione alla contemporaneità, che fa sempre male accettare da parte di un regime.
Nel ricorso storico gli orizzonti sembrano allargarsi all'intera Europa orientale, e forse alla cultura occidentale, ma il regista appare sempre ipercritico e cinico verso il proprio paese.
In un post-'68 Zulawski mostra quanto fosse vicino il 1793 (seconda spartizione della Polonia) all'attuale nazione succube del blocco comunista stalinista, con la stessa idea di unità e insubordinazione irrealizzabile (che fossero la Prussia o l'Unione Sovietica a determinare le condizioni è irrilevante) in considerazione della reiterazione dei meccanismi che regolano i rapporti tra individui.
Il diavolo tentatore come detto è a sua volta corrotto (Diavolo/Giuda), la sorella di Jakub è una Maddalena gravida costretta a prostituirsi. Un quadro delirante.
Laddove naturalmente dio non esiste, la disintegrazione nasce e si propaga dalla stessa cellula che per altri è la base della civiltà: una famiglia contraddistinta da rapporti morbosi e incestuosi, di prevaricazione, mostruosi.
Il matrimonio è in realtà un rito sciamanico inquietante (una delle sequenze più suggestive del film).
Qui giace essenzialmente la "rivoluzione" cinematografica di Zulawski. A soli trentadue anni, al secondo lungometraggio, osa quanto solo Cassavetes, Bergman e pochi altri avevano osato, con la differenza che questo Cinema fa veramente paura, è scabroso e psicotico, più isterico di Bergman e più violento dell'Oshima del decennio precedente. C'è dunque già una distanza stilistica clamorosa rispetto a Wajda con cui pure aveva collaborato fino a non molti anni prima.
Si dice che gli orrori della guerra per il piccolo Andrzej, nato nella Polonia già occupata nel '40, siano stati il naturale esorcismo cinematografico che egli abbia sempre perpetrato. Ma incanalare questo regista esclusivamente nella direzione dei vissuti sarebbe sbagliato, non contemplando l'eredità di un padre poeta e di uno zio scrittore e filosofo: echi onnipresenti in un Cinema colto (coltissimo!) che in questo caso cita "a suo piacimento" la Bibbia, Shakespeare, persino l'Eneide, e in particolar modo il "nostro" amato Dostoevskij. Adoro come il regista polacco abbia spesso ricalcato gli eccessi delle figure dei romanzi dello scrittore russo, perché sono in simbiosi con il suo Cinema: movimenti onnipresenti negli spazi, convulsi e frenetici, una steadycam che si muove di pari passo imprimendo su pellicola momenti indimenticabili. Urla, crisi isteriche (e in questo caso il Jakub/Myskin soffre di inconfondibili attacchi epilettici). E poi gli attori, clamorosi. La preparazione maniacale sulla scuola, mi dicono, del teatro povero di Grotowski. Attori di una caratura che raramente ho visto al Cinema, e non di certo alludo solo alla Adjani.
Questo film si vive addosso e la forza dell'immagine lascia un segno tale da mettere in secondo piano le mille farneticazioni della parola (come questo commento).
Verboso, forse caotico ma non indecifrabile. Non è così chiaro il filo narrativo (ma questa parola, "narrazione", sembra non avere importanza per questo regista), ma non importa: un moto scellerato di libertà mi assale dopo la visione perchè scopro di aver esorcizzato tutte le mie paure.
Crimson  27/09/2012 11:57:56Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Appendice (luglio 2011)

E’ difficile per il malcapitato spettatore trovare una propria collocazione all’interno del Cinema di Andrzej Zulawski, così ebbro e debordante di alta emotività espressa.
Ogni tentativo di avvicinare un suo film con gli strumenti di cui ci serviamo quotidianamente va miseramente a vuoto, e tutto appare criptico, irritante, costruito.
Occorre la volontà di mettersi a nudo e lasciarsi trasportare dai propri sensi.
Quando la logica propriamente detta lascia spazio all’istinto.
Non c’è regista che susciti sensazioni così contrastanti come Zulawski. Il suo eccesso affonda le radici nella volontà di esorcizzare il proprio malessere. Il suo Cinema di movimenti scomposti, pensieri deraglianti, eloqui bizzari e esplosioni di violenza tocca la nostra suscettibilità.
Essere suscettibile significa essere particolarmente sensibile alle critiche: Zulawski critica il nostro sistema di convinzioni e di buona condotta, di educazione e basso profilo dei nostri intenti.
Non si nasconde mai, il regista polacco: tutto è esibito, nel bene e nel male.
In questa esplosione ci troviamo a fare i conti con i sentimenti che si isolano progressivamente.

Ne La fidelitè la protagonista è evidentemente tradita da una volontà fedele, genuina, devota. Sembra che aderire ad una volontà inquadrata, figlia di un sistema morale ben determinato, generi paradossalmente una reazione opposta in chi è l’oggetto della nostra condotta. Avviene la mostrificazione di quel sentimento, chiamatela gelosia patologica o paranoia, ben poco importa. Zulawski travalica i limiti, indica che esistono sottigliezze nel campo dei sentimenti.
E’ un Cinema malato che esibisce la propria malattia con sfrontatezza.
I frammenti che costituiscono le colonne sonore spesso sono in sfacciata antitesi tra di essi.
La recitazione degli attori è quasi sempre sopra le righe: movimenti convulsi, eloquio bizzarro e ridondante. Questo è Zulawski, snervante, morboso. Amore balordo.
I film di questo poeta polacco ci cambiano, anche se non ne cogliamo tutte le sfumature.

Evitate come la peste le versioni italiane dei suoi film, sono degli insulti alla nostra intelligenza: tagli corposi, alterazioni del senso dei dialoghi, del colore e persino della colonna sonora.

Ho visto il citato La fidelitè e rivisto L’amour braque. Quest’ultimo è uno dei più bei film che io abbia mai visto (naturalmente alludo alla versione integrale, sempre in riferimento a quanto segnalavo prima).
Curiosamente questi due film costituiscono l’alfa e l’omega della relazione artistica e affettiva tra il regista e Sophie Marceau. Ho rivalutato moltissimo questa attrice.
Secondo me Zulawski ha tratto il meglio dai propri interpreti, e ha trasformato nel giro di cinque anni la Marceau dalla stereotipata adolescente Vic alla Mary/Nastassja de L’Idiota, ossia la perdizione in carne ed ossa!
Quante attrici hanno vissuto una tale trasformazione tra i 14 e i 19 anni? Quanto ha influito questa mutazione artistica sulla vita della Marceau?
Avrò mai il coraggio di analizzare un film come L’Amour Braque? Forse, un giorno.
Nel frattempo ho voglia di rivedere anche La femme publique: ho nostalgia del balletto “da infarto” (è proprio il caso di dirlo – chi ha visto il film sa cosa intendo) di Valerie Kaprsisky.


Dormire.
Morire.
Far morire.
Fare l’amore.
Sempre lotta.

(Maria/Nastassja, L’amour braque – 1985)

Come se ci fosse un braccio teso che con violenza spinge la tua testa sotto la superficie dell'acqua: durante la visione di un film di Zulawski cerchi ossigeno, logica, distensione, ma la persona che distende il braccio ti intima "stai giù!".

“I miei film e io stesso ciò che scrivo siamo trattati con disprezzo sempre maggiore dalla Superficie, la superficie rifiuta ciò che è sgradevole, per rimanere Superficie” (Andrzej Zulawski)