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M, IL MOSTRO DI DUSSELDORF regia di Fritz Lang

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kafka62     9 / 10  09/05/2018 15:56:53Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Le inquadrature iniziali di "M" sono indimenticabili: dalla filastrocca cantata in cerchio dai bambini, la quale crea subito un'atmosfera di presaga inquietudine, all'immagine della fanciulla che gioca con la palla davanti al manifesto che promette una ricompensa a chi catturerà l'assassino e sul quale si proietta all'improvviso l'ombra del mostro, fino ad arrivare alla giustamente celebre uccisione fuori campo, spiegata per mezzo di oggetti e particolari allusivi (la tromba delle scale deserta, il posto vuoto a tavola, la palla che rotola lontano e il palloncino che si impiglia nei fili elettrici), Lang utilizza i più classici stilemi dell'espressionismo per realizzare una sequenza efficacissima per ritmo, concisione e tensione narrativa. Se per un verso "M" è inconfondibilmente espressionista (oltre che per motivi puramente stilistici, anche per il ricorso al tema della personalità abnorme e dissociata e per l'uso frequente all'interno della scenografia di specchi e ombre in funzione significante), per l'altro esso segna il definitivo superamento di quel periodo di cui Lang è stato per un decennio incontrastato maestro. Anzi, pur anticipando di quasi cinque anni il trasferimento del regista negli Stati Uniti, "M" può essere addirittura scambiato per un film poliziesco di produzione americana: a sostegno di questa impressione, non mancano riunioni di gangster in stanze sinistre dove ristagna il fumo delle sigarette, retate di polizia in locali malfamati, e soprattutto quel gusto per la tipizzazione dei personaggi, sia principali che secondari, che ha fatto la fortuna di Hollywood.
Nonostante queste premesse, "M" è una pellicola difficilmente classificabile. Ad un certo punto del film appare persino chiaro come al regista non interessi prolungare la suspense sapientemente creata nei primi minuti. Il colpevole è anzi svelato quasi subito agli occhi del pubblico, e mai si nutrono autentici dubbi sulla possibilità che egli venga prima o poi catturato. Piuttosto non si può fare a meno di chiedersi in quale modo ciò avverrà. L'interesse della storia si trasferisce in sostanza dal personaggio dell'assassino a quello dei gruppi di persone che gli danno la caccia. Qui il film diventa splendidamente ambiguo: le autorità di polizia sono infatti paradossalmente affiancate nelle operazioni di ricerca dalle bande di criminali della città, organizzate come una vera e propria, efficientissima, microsocietà (i gangster hanno le loro assemblee, il loro tribunale, persino un fondo di solidarietà per le mogli dei compagni finiti in galera, e, quando lo decidono, non faticano ad attivare una capillare rete di spionaggio e di controllo del territorio, avvalendosi dei numerosi mendicanti sparpagliati per le strade). In una azzeccata sequenza del primo tempo, Lang monta parallelamente, come se facessero parte di una stessa azione, le immagini delle riunioni dei vertici di polizia e dei capi dei malviventi, così come, più avanti, contrappunta la scena dell'inseguimento del maniaco, ormai scoperto, con gli sviluppi delle indagini investigative ufficiali. Lang affronta qui per la prima volta, in termini che oscillano ancora tra il realistico e il grottesco, uno dei suoi temi prediletti, quello del conflitto tra giustizia ufficiale e giustizia privata. Questa riflessione sfocia nella bellissima sequenza del processo, in cui l'assassino viene giudicato da un bizzarro tribunale composto da ladri, delinquenti e avanzi di galera, che ricorda un po', per la sua palese improponibilità logica, un analogo episodio del "Processo" kafkiano. L'opinabilità del concetto di colpevolezza (l'uomo è colpevole come individuo oppure come essere sociale? dove finisce la responsabilità individuale e inizia invece l'ineluttabilità insita nella condizione umana?) si incarna nella figura dimessa e spaventata di Peter Lorre che, analogamente allo Shylock shakespeariano, assomiglia tutto sommato più a una vittima che a un carnefice, come il suo tragico e disperato monologo di uomo malato mette in luce con commovente crudezza.
La lunga sequenza finale nella distilleria in disuso è il momento culminante di un film dall'architettura stilistica molto elaborata. I raccordi spaziali, le ellissi e l'uso del fuori campo sono a dir poco stupefacenti. Quando, ad esempio, Peter Lorre, dopo esser stato portato via dal suo nascondiglio, viene spinto brutalmente dentro una stanza, egli ha qualche attimo di disorientamento,e quando la macchina da presa inquadra l'immenso stanzone pieno di gente silenziosa e ordinatamente disposta su più file, la sua sorpresa è anche la nostra, tanto questa immagine risulta inaspettata e incongrua rispetto a ciò che era lecito attendersi: l'efficacia dell'apparizione risulta di gran lunga maggiore che se fosse stata in qualche modo anticipata allo spettatore attraverso precedenti inquadrature o dialoghi informativi. Un ottimo effetto sorpresa si ritrova anche quando Lorre rivendica appassionatamente davanti ai suoi giudici la propria innocenza e la mano del mendicante cieco entra all'improvviso, da sinistra, nell'inquadratura per confermare che proprio lui è il mostro a lungo cercato; o quando un'altra mano batte sulla spalla di Lorre accasciato a terra, rivelando l'inattesa presenza sopra di lui dell'avvocato difensore. I limiti naturali dell'inquadratura sono così utilizzati da Lang per creare una complessa dialettica campo-fuori campo, in grado di conferire allo spazio scenico un ruolo per così dire allargato e gravido di maggiori potenzialità narrative. Lo stesso può dirsi per la dimensione temporale, che viene manipolata dal regista in modo da far scaturire una sorta di ellittica ambiguità e imprevedibilità nella scansione delle scene. Oltre al montaggio parallelo di alcuni episodi, cui si è già fatto cenno più sopra, la sequenza più significativa è forse quella in cui l'ultimo bandito rimasto nel palazzo chiede la corda per risalire dal foro in cui si era calato, ma quando emerge trova ad attenderlo, al posto dei suoi compagni, la polizia. Anche il contrappunto tra suono e immagine risulta fondamentale (la voce della madre che chiama la bambina si sovrappone al vuoto delle immagini che descrivono in maniera agghiacciante la tragedia appena avvenuta, il motivo fischiato dall'assassino accompagna la sua trasformazione da tranquillo borghese in pericoloso psicopatico), e questo, a pochissimi anni dall'introduzione del sonoro, testimonia una volta per tutte il ruolo determinante e originale svolto da Fritz Lang nell'evoluzione della settima arte, ruolo che in America, pur con l'approfondimento di nuove e affascinanti tematiche, verrà fatalmente compresso da una ben diversa e più limitata concezione autoriale da parte della potente industria cinematografica.