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LO ZIO BOONMEE CHE SI RICORDA LE VITE PRECEDENTI regia di Apichatpong Weerasethakul

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Invia una mail all'autore del commento kowalsky     7½ / 10  22/10/2010 19:03:56Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Ho trovato il film splendido, probabilmente il mio voto sarebbe più alto se pensassi che la sua linea teorica sia felicemente compiuta. Non del tutto, secondo me. Conosco marginalmente quest'autore dal nome impossibile, e mi limito a ricordare l'esperienza (assai più impegnativa) del precedente "Syndrome and a century", che raccontava di una clinica. Opera sperimentale a tutti gli effetti, giocato su un'avanguardia metafisica e metaforica spiazzante, pochi dialoghi e immagini nitide, statiche.
Lo accantonai come il "solito" orientale innamorato di Antonioni (non è vero) però qualcosa mi era rimasto.
Ora "Lo zio Boonmee" non vince il festival di Cannes per puro caso. E' un film dal codice linguistico ostico, ma io non l'ho trovato affatto noioso, anzi i 114 minuti sono trascorsi molto velocemente.
Credo si debba riconoscere che se A. è ritenuto universalmente uno degli autori più innovativi, è proprio per la sua capacità di essere complesso e al tempo stesso molto semplice nella sua ricerca.
Non è necessario che lo spettatore occidentale conosca i monaci Zen o la loro filosofia, credo sia sufficiente addentrarsi nell'enigma della vita e della morte per sentirsi affettuosamente plasmare dal suo "sortilegio". E il film, soprattutto nella prima parte, penetra nella nostra psiche fagocitando tutti quegli strumenti amorevoli della vita eterna (riferimento al concetto di morte come vita, in quanto sopravvive nel ricordo delle persone).
Lo zenith massimo si raggiunge davanti all'incantevole sequenza della principessa che ritrova il fedele e amato servitore, davanti all'acqua rigogliosa che è simbolo di vita, e di abluzione temporale.
Credo sia giusto parlare di cinema "primitivo" per questo film di immagini nitide e allucinate, dove i fantasmi e gli elementi terreni si fondono in un equilibrio di magico fascino.
La metafora ricorda sicuramente più il grande giapponese Shohei Imamura che la metaforica visione di Tsai-Ming Liang.
Si veda il personaggio del figlio defunto di D., diventato uomo-lupo dopo la permanenza nella foresta.
Questo contesto riguarda la feroce repressione operata dai contadini contro il governo cinquant'anni fa, una pagina amara della storia della Thailandia, e la fuga dei sopravvissuti nei boschi.
E' necessario conoscere almeno questi eventi raccontati dal regista per apprezzare a fondo questo film.
L'immaginario di A. costruisce a modo suo la realtà.
Arrivando anche a esperienze (indirette) di Obaa (quando il corpo esce dalla sua dimensione fisica e mentale), come l'esistenza del villaggio, dominato da una fugace (occasionale) ironia e un grande senso di pudore mentale
Invia una mail all'autore del commento logical  23/10/2010 13:25:51Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
bravo kowalsky,
ma mi dici qualcosa di pià sulle "esperienze di Obaa"? Mi interessa molto scoprire che c'è una parola per una sensazione dissociativa...
Invia una mail all'autore del commento kowalsky  04/11/2010 19:22:57Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi


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