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LESLIE - IL MIO NOME E' IL MALE regia di Reginald Harkema

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alexhorror     6 / 10  04/04/2012 18:15:27Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Le psicotiche gesta criminali di Charles Manson e della sua "famiglia" sono state svicerate e riproposte attraverso una moltitudine di film. Da "Helter Skelter" (Tom Gries, 1976), considerato il migliore cineritratto di Charlie, a "The Manson Family" (Jim Van Bebber, 2003), violenta e vagamente psichedelica – ma soprattutto carente – rappresentazione dei fatti mansoniani.
Fatti che instillano più terrore di qualsiasi film horror, facilmente Wikipediabili qualora ne foste all'oscuro.
Tornando al cinema, chi scrive è parecchio diffidente nei confronti dei film basati sulla vita dei serial killer d'America (Bundy, Dahmer, Gacy, ecc.), spesso banalissimi e censuratissimi titoli "direct-to-video" completamente evitabili.
Ecco perché "Leslie: Il mio nome è il Male" (2009, Reginald Harkema) partiva con gli sfavori di ogni benevolo pronostico.
La ragazza del titolo fa riferimento ad una seguace di Manson (fittizia, in realtà) che con una personalità forte e seducente diventa un personaggio di spicco della "family", nonchè figura chiave degli omicidi e, in seguito, del processo agli assassini di Cielo Drive.
"Sexy trasgressiva assassina", la Manson Girl così dozzinalmente descritta nella tagline è procace rea confessa: ma per la legge secondo cui c'è solo una cosa che tira più di un carro di buoi, il giovane giurato Perry (Gregory Smith, "Il Patriota") ignora la confessione e vacilla ormonalmente mettendo a rischio il verdetto del processo.
Sullo sfondo di un'America dilaniata fisicamente e moralmente dal Vietnam, stordita da Lsd, omicidi e falsi profeti, in un gioco di perverse ed inconfessabili attrazioni Charlie Manson (Ryan Robbins, "Apollo 18"), Leslie e Perry scrivono la storia di un film che lungi dal voler essere una ricostruzione fedele fa quasi divertire.
Non serve tuttavia un'indagine puntigliosa per accorgersi che "Leslie", se analizzato pragmaticamente, sia lacunoso: con molte licenze "poetiche", clichés ed anacronismi, il film non ha valore documentaristico né orrorifico. Robbins, più Chris Cornell che Manson, è simpatico ma azzera l'aura magneticamente diabolica che si dice circondasse l'assassino di Cincinnati. Meglio Kristen Hager ("Io Non Sono Qui", "Alien Vs Predator 2") a ritrarre una Leslie perversa, colpevole e fiera, e Smith a fare da contraltare ingenuo, simbolo dell'innocenza e poi dell'incrinata integrità borghese.
Il fraintendimento, probabilmente, è credere dunque che Leslie sia un film dell'orrore. Molto meglio affrontarlo come una leggera (ma non così sballata) satira di un periodo storico retto su valori che le gesta di criminali fanatici hanno provato a scalfire.
L'orrore c'è, l'orrore non c'è: c'è la cronaca, non c'è bisogno di sangue. Qualche momento ematico non manca, ma gli intenti di Harkema non sono quelli di metterla sul macello. Sono piuttosto lo scenario sociale, la seduzione del male, il perbenismo cattolico americano degli anni '60 e '70 ad importare e ad essere affrontati in maniera sguaiatamente ironica e caricaturale, sollevando il film da un'ignominia che sembrava ineluttabile.
Manson sosteneva di essere la reincarnazione di Gesù Cristo; la castissima fidanzata di Perry sostiene di amare più Dio del proprio fidanzato. Allora tutto torna: la patina per bene e il sogno americano non sono impermeabili. E l'attrazione del male, spesso, è più forte del resto.