caratteri piccoli caratteri medi caratteri grandi Chiudi finestra

1941 - ALLARME A HOLLYWOOD regia di Steven Spielberg

Nascondi tutte le risposte
Visualizza tutte le risposte
amterme63     5 / 10  10/04/2010 17:20:19Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Addio Spielberg modesto e terra-terra dei primi film. Da “Incontri ravvicinati del terzo tipo” è uscito un regista dedito al divertimento facile, per lo più disimpegnato e a produzioni che hanno per obiettivo un probabile e considerevole ritorno finanziario. Certo, quel film ha una dimensione sognante, un’atmosfera quasi infantile nella sua semplicità e ovvietà di sviluppo e anche lo stile filmico rimane in ogni caso di prim’ordine. Quindi siamo sicuri, avendo a che fare con i film di Spielberg a cavallo fra 70 e 80, di divertirsi, appassionarsi, rifarsi gli occhi, senza dover strizzare troppo il cervello o trovarsi davanti a questioni scomode o spinose.
C’è però il pericolo dello scadere nell’eccesso opposto, cioè di finire nel triviale, nel superficiale e nell’improbabile. Ed è quello che succede purtroppo con 1941, il primo film che Spielberg gira dopo “Incontri ravvicinati” ed è il rischio che ha corso con il primo Indiana Jones.
Il mio consiglio è di lasciar perdere “1941”, saltatelo pure, non perdete niente.
La sceneggiatura fa acqua da tutte le parti: è un affastellarsi di episodi uno più assurdo dell’altro che non stanno minimamente in piedi. La “scusa” della scarsa plausibilità è che si vuole fare della satira. Il modello in qualche maniera è “Mash” di Altman, solo che quest’ultimo film in confronto è un capolavoro assoluto. Prima di tutto Altman usa la satira per dileggiare e sconfessare le idee militariste e i “poteri forti”; Spielberg invece usa la satira per prendere amabilmente in giro gli stereotipi comuni dell’americano medio, con l’effetto di renderli più simpatici e quasi “nobili”.
Spielberg in genere come un guanto si adegua ai gusti e alle mode correnti. Gli ultimi anni 70 erano gli anni del soft porno, dei primi film leggeri di stile trash e questo film risente molto di questo stile. Nella prima parte i doppi sensi (anche piuttosto volgari) si sprecano. I personaggi sono delle pure e semplici macchiette senza alcuno spessore. I fatti sono “facilmente” assurdi e scimmiottano i cartoni animati, il divertimento comune di stampo televisivo.
Per accaparrarsi ancora di più la simpatia dello spettatore ricorre a una galleria di attori famosi. Così vediamo Toshiro Mifune, Belushi e tanti altri che recitano parti “tipiche” della loro carriera, l’immagine che il grande pubblico in genere gli affibbia mentalmente.
Da questo spettacolo assurdo e (apparentemente) sconclusionato esce fuori però abbastanza netto il messaggio che gli Stati Uniti possono tranquillamente sentirsi legati come nazione anche grazie ai loro stereotipi e ai loro “vizi”. Bando ai problemi razziali (basta un po’ di farina e della polvere di cacao per cancellarli), alle disparità economiche, ai giochi di potere e alle mille contraddizioni della società americana; l’importante è che tutti mangino hamburgher da Mac Donald’s e guardino cartoni animati.
La fine degli anni ’70 è infatti l’inizio dell’epoca del trionfo del trash, del superficiale, dell’apparente che, partito dalla televisione e dal cinema, ha pian piano invaso ogni campo “spirituale” della cultura occidentale fino ad arrivare oggi a influenzare anche la politica.
Spielberg ce ne ha dato una delle prime (negative) testimonianze.