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THE TREE OF LIFE regia di Terrence Malick

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kafka62     8½ / 10  09/03/2018 11:47:08Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Il cinema di Terrence Malick è una tensione costante verso l'immagine perfetta, è una estatica esaltazione panica del cosmo, un simbolico riflettersi delle vicende individuali nella storia del mondo. Malick è un massimalista, un regista che non si accontenta dell'esperienza quotidiana, o meglio che dall'esperienza quotidiana dei suoi personaggi vuole distillare riflessioni sui massimi sistemi (il senso della vita, del dolore, se esiste Dio e cosa c'è nell'aldilà, cose così insomma). Di tutto questo "The tree of life" è la summa, il concentrato, il non plus ultra. Il film non ha una vera e propria storia: c'è una famiglia americana anni 50 (padre, madre e tre figli), immagini in libertà di un'età perduta per sempre, il trauma della morte di un figlio, il lutto da elaborare, il presente inquieto di un uomo che cerca di tirare le somme della sua esistenza e trovarvi un significato trascendente. Il tutto si interseca con meravigliose sequenze sulla nascita della vita, sull'origine del mondo, tra feti in controluce, cellule che si dividono, cascate che precipitano, vulcani che eruttano e stelle che esplodono. Mai come in questa pellicola il micro e il macro, l'intimo e il sovrannaturale sono stati indissolubilmente intrecciati, in un simbolico gioco di rimandi figurativi che è anzitutto una esperienza religiosa. La voce off che apre il film parla di Grazia e di Natura, le due forze che da sempre agiscono sul mondo e che ritroviamo metaforicamente incarnate nelle figure della madre e del padre, la prima dolce, affettuosa e materna, il secondo rigido e autoritario. Il figlio maggiore cresce tra questi due poli (la madre a instillare amore, altruismo e fede, il padre a preparare il figlio alla competizione e alle durezze della vita), che sono poi le ipostasi ossimoriche di un mondo che da sempre elargisce inestricabilmente bellezza e orrore, gioia e sofferenza, stupore e spavento. Malick non dà risposte, non è un filosofo, piuttosto è un pittore o un musicista che impressionisticamente suggerisce visioni ed epifanie, alla ricerca di un tempo perduto che non è circoscrivibile solo all'arco di una esistenza ma che, con timore e tremore, ammaliato e atterrito come i suoi personaggi, intuisce essere la ragione stessa di tutti gli organismi viventi, uomini, piante o animali. La visione finale in cui Jack oltrepassa la porta dell'aldilà e ritrova, in una landa immacolata bagnata dal mare, tutti i suoi cari, se da un lato rischia di sfiorare il kitsch di uno spiritualismo new age, dall'altro è il logico, consequenziale punto di arrivo di chi comprende, al di là di uno specifico credo religioso, che non può esaurirsi tutto qui e oggi, che la vita va ben oltre quello che possiamo vedere e toccare, che nell'universo, in un filo d'erba come in un pianeta, c'è una energia spaventosa, che non riusciamo a capire pienamente ma che, forse perché tutti la portiamo dentro, possiamo vagamente intuire. Come Kubrick in "2001: odissea nello spazio", Malick ci accompagna in questa magica, raffinata, estatica e titanica (possiamo immaginare l'enorme quantità di girato che al montaggio il regista ha eliminato) esplorazione, che va ben al di là della storia di Jack e del suo rapporto edipico con il padre (così come "2001" non era solo la storia dell'astronauta David e del computer HAL 9000), alla ricerca di un filo rosso che possa condurci alle sorgenti stesse della vita, là dove nulla e tutto sono così vicini e così simili da essere quasi indistinguibili. In questo impalpabile iato Malick riesce a costruire un film visivamente perfetto, filosoficamente complesso, emotivamente ispirato, un film che forse non è esagerato considerare epocale.