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IL VILLAGGIO DI CARTONE regia di Ermanno Olmi

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Invia una mail all'autore del commento LukeMC67     8½ / 10  19/10/2011 14:43:45Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Per fortuna che esistono coscienze vive e sveglie nel mondo cattolico che ogni tanto gridano nel deserto!
Mancando (fortunatamente) alla sua promessa di chiudere col cinema di fiction, Ermanno Olmi torna a girare una pellicola "movimentatamente contemplativa", usando due set e una produzione documentaristica (uno dei finanziatori è quella Edison con la quale Olmi esordì alla macchina da presa).
Qualcuno lo ha definito "il 101° chiodo" del vecchio Maestro, "slogan" che condivido in pieno; aggiungendo che questo chiodo è ben più conficcato a fondo dei precedenti 100.

L'inizio del film è di una potenza evocativa e metaforica devastante: una chiesa moderna ma vuota, disordinata e sudicia, in cui solo le immagini e gli oggetti considerati tradizionalmente sacri sono mantenuti in perfetto stato (ma comunque ben distanti dallo spazio dell'Assemblea, particolare non secondario) e sui quali troneggia un Cristo magniloquente e maestoso, sta per essere svuotata e forse buttata giù perché inutile. La stessa Curia ne ha decretato la sconsacrazione e ha autorizzato le Autorità civili a portarne via ciò che di artisticamente prezioso contiene, lasciando il resto all'abbandono più totale. L'ex-parroco, ormai vecchio, assiste impotente all'assalto e alla spoliazione della "sua" chiesa tentando una vana quanto patetica resistenza a suon di invocazioni in latino. Quando però si rende conto che nessun Dio interviene a fermare le ruspe, si rifugia nella canonica spoglia e misera chiudendo bene a chiave per la paura e abbandonandosi alla disperazione. Ma restando determinato nel non voler abbandonare quel posto fino alla fine dei suoi giorni (chiederà dispensa al Vescovo). Con sé porta una piccola, pacchiana statuina logora raffigurante il Cristo con la M-adonna e altri personaggi che sembra rubata a un mediocre presepio: sarà ad essa che si rivolgerà d'ora in poi nelle sue accorate (ma sempre più sincere e sempre più prive di "orpelli formali") preghiere.
Meglio di così non si poteva rendere il crepuscolo vaticano nel quale versa la Chiesa Cattolica, sempre più vuota, latitante dal presente, impaurita e assediata secondo una sindrome che fu così esplicitamente definita da Camillo Ruini, moderno Mazzarino d'Oltretevere, all'inizio degli anni Novanta. I simboli sono roba da antiquariato da valutare al Mercato dell'arte e da trattare con cura prima di essere immersi in naftalina o ai musei, non hanno più nulla da dire perché la loro perfezione formale è inversamente proporzionale alla potenza evocativa di ciò che dovrebbero significare.

In mezzo a tanto deserto, fa' irruzione la realtà, prima timidamente riprodotta da un vecchio televisore nella canonica e poi più brutalmente incarnatata da un manipolo di immigrati che, guidati da una giovane e procace prostituta fidanzata a uno spregiudicato ragazzo che li sfrutta (il novello Giuda Iscariota?), adocchia la chiesa ormai svuotata come un luogo sicuro dove nascondere i migranti in attesa di proseguire verso la Francia (limitatamente a chi può permettersi di pagare l'altra tranche del viaggio). Oltre a loro, però, faranno irruzione anche un uomo aggredito e ferito dalle forze dell'ordine con la propria famiglia, accompagnato da un uomo determinato e idealista che presto si rivelerà l'interlocutore del vecchio sacerdote e il catalizzatore di tutte le aspirazioni e tensioni all'interno del gruppo di africani.
Quando il vecchio prete si accorge di quanto sta accadendo acquistandone via via consapevolezza, comincia a sostituire i propri malinconici ricordi con il dialogo con questi estranei e quindi con un rinnovato vigore evangelico che lo porterà non solo ad accogliere i migranti, ma a difenderli efficacemente dai tentativi di irruzione delle forze di polizia e dal tradimento del giovane di colore che "soffia" alle autorità la presenza dei clandestini facendoli addirittura penetrare nella ex-chiesa.

Nel frattempo questi migranti si accampano sull'ex-sagrato recuperando i pochi oggetti per noi sacri rimasti e riutilizzandoli efficacemente per risolvere i problemi pratici della convivenza in quel posto: dalla vasca battesimale fino alle candele e ai cartoni delle tele raffiguranti la Via Crucis, tutto servirà ad alleviare i disagi pratici che quelle persone si troveranno ad affrontare in quel luogo rassicurante ma sciatto. Questa ulteriore, potentissima metafora visiva acquista davvero una valenza quasi parabolica e racchiude il pensiero-invettiva di Olmi: solo recuperando l'essenza degli oggetti -compresi quelli sacri- e quindi restituendone il loro senso primigenio sarà possibile farli rinascere e "riabilitarli" agli occhi del mondo e di Dio.

Le forze dell'ordine, ormai penetrate nella ex-chiesa, si comportano con la stessa brutalità e distacco burocratico di Ponzio Pilato prima di essere cacciate dal Tempio dal vecchio prete. Ma all'interno del gruppo di immigrati, accanto a coloro che cercano un dialogo nella gratitudine per l'accoglienza ricevuta, si nasconde chi vorrebbe utilizzare la scorciatoia della violenza: una ragazza imbottita di tritolo è sempre pronta a far saltare in aria tutto in nome della disperazione e dei torti subìti.

Il film ha una parte riuscitissima e una decisamente debole: la parte più efficace è senz'altro quella in cui Olmi si abbandona al mezzo visivo per raccontare la propria idea di Cristianesimo e della Chiesa Cattolica. Volti, gesti, luoghi, ma soprattutto luci e ombre magistralmente dosate e catturate dalla fotografia del bravissimo figlio Fabio (riguardatevi "Cantando dietro ai paraventi" e soprattutto "Il mestiere delle armi", la cui fotografia è esplicitamente ispirata agli affreschi rinascimentali contenuti nel Palazzo Ducale di Urbino), sanno incidere indelebilmente nella mente e nell'anima degli spettatori di questo film, specie se di formazione cattolica.
Quasi irritante, invece, la forzosa presenza di citazioni (di Gianfranco Ravasi) che sembrano messe in bocca ai personaggi perché "dovevano" essere dette o, peggio, perché "dovevano spiegare" ciò che accade! Peccato perché si tratta di riflessioni molto profonde che raccolgono moltissime delle questioni irrisolte dal Magistero cattolico post-conciliare e che si traducono in veri e propri drammi di coscienza individuali, di "inciampo" al cammino di Fede che tante e tanti intraprenderebbero o non interromperebbero se avessero a che fare con una Chiesa meno falsamente sicura di sé e più aperta all'ascolto e all'accoglienza degli ultimi, acutamente identificati da Olmi nei "diversi" in generale (il vecchio parroco chiederà al suo ex-vice che gli rimprovera proprio l'aver aperto le porte della chiesa a dei "diversi", se anche loro non siano tali rispetto a quelli e alla società).

Fortunatamente prevalgono le suggestioni visive e musicali che ci portano dritti al senso ultimo di questo piccolo gioiellino di Olmi che sta in una frase del vecchio prete il quale, rispondendo al perché avesse spalancato le porte della chiesa sconsacrata e della canonica a dei pericolosi irregolari e se fosse consapevole delle conseguenze altrettanto pericolose di quel gesto, risponde con infantile chiarezza: "Ma perché è una chiesa!". Qualcuno lo vada a dire a Ratzinger, a Bagnasco e a tutte quelle coscienze "rettamente formate" dalla dottrina-Ruini, per favore.