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THIS MUST BE THE PLACE regia di Paolo Sorrentino

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kafka62     7½ / 10  06/04/2018 15:00:39Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Sorrentino non è il primo dei registi italiani che ha trasferito la sua macchina da presa al di là dell'Atlantico. Penso, ad esempio, all'Antonioni di "Zabriskie Point" e – più recentemente e in chiave minore – al Muccino di "La ricerca della felicità" e di "Sette anime". C'è da dire subito che l'esito dell'esperimento è stato davvero notevole, dal momento che il regista napoletano ha affrontato uno dei generi classici del cinema americano, il road movie, con perizia e sensibilità, segno di una sorprendente assimilazione della cultura americana, senza per questo che venisse snaturata la propria poetica (cosa che era invece successo con Muccino, che si era mimetizzato come uno dei tanti registi hollywoodiani). Il suo gusto per i personaggi eccentrici lo si ritrova pari pari in Cheyenne, tanto che il Sean Penn dagli abiti dark, la capigliatura cespugliosa e il viso pesantemente truccato può ben essere considerato parente stretto del Toni Servillo de "Il Divo", "L'amico di famiglia" e "Le conseguenze dell'amore". E' un personaggio che si imprime indelebilmente nella memoria quello della vecchia rock star che si rifiuta di crescere, depressa, bizzosa, querula e piena di tic (quello per esempio di soffiarsi in continuazione il ciuffo che gli cade sugli occhi) e di manie (non può fare a meno di muoversi, quasi al rallentatore, con un carrello della spesa o con un trolley al seguito). A sconvolgere la sua immobilità, il suo vuoto esistenziale, sopraggiunge la morte del vecchio padre, con cui aveva troncato ogni rapporto da moltissimi anni. Se nel "cinema su strada" americano la storia è sempre un pretesto per una crescita, una trasformazione interiore, "This must be the place" non fa eccezione: attraversando luoghi iconici e pregni di significato (metropoli affollate all'inizio, e poi, in una progressiva rarefazione degli spazi, sordidi motel, solitarie stazioni di servizio, deserti a perdita d'occhio, nuvole bianchissime in cieli azzurrissimi e le immancabili routes che paiono non aver mai fine) e incontri bizzarri (un cacciatore di nazisti, un uomo coperto di tatuaggi, un indiano che senza dire una parola strappa un passaggio a Cheyenne e si fa lasciare in mezzo al nulla, un bambino obeso che duetta con lui cantando la canzone dei Talking Heads che dà il titolo al film, l'inventore stesso delle valigie con le ruote, e persino, in un breve cammeo, David Byrne), Cheyenne si mette, con la sua annoiata indolenza e la sua laconica e disillusa filosofia, alla ricerca dell'uomo che umiliò sessant'anni prima il genitore ad Auschwitz, uscendo dall'esperienza profondamente trasformato nell'animo (per la prima volta riesce ad amare e a capire il padre) e persino nel fisico (nell'ultima inquadratura lo vediamo addirittura vestito da persona comune). Sorrentino sfiora temi profondi e impegnativi (i legami di sangue, la vendetta, la ricerca di un senso da dare alla propria vita, la malinconia per il trascorrere inesorabile del tempo, i rimpianti per gli errori del passato) con la stranita curiosità con cui il suo protagonista osserva il mondo che lo circonda, vale a dire con apparente distacco, un pizzico di cinismo e senza alcuna sentenziosità (nonostante che alcune frasi pronunciate dalla voce off – ad esempio , "ci sono molti modi di morire, ma il peggiore è quello di rimanere in vita" – sono dei veri e propri aforismi), lasciando allo spettatore il non facile compito di riempire i vuoti e i non-detti, di tirare le somme e di ricavare e di ricavare un significato chiaro e univoco dalla parabola di Cheyenne. Quello che invece risalta senza ambiguità e con assoluto nitore è lo stile del regista: mai un'immagine banale, mai un'inquadratura messa lì per caso, ma uno stile elegante e raffinato, fatto di dolly sinuosi, di sequenze "a scoprire", di inquadrature che giocano sapientemente con cambi di messa a fuoco e di una stimolante alternanza tra il rigoroso iperrealismo ambientale (come è nei canoni del road movie) e la eccentrica stravaganza delle situazioni (il pistacchio più grande del mondo, un gruppo di turisti tedeschi nello Utah, il pick-up che prende fuoco senza apparente motivo). Con quest'opera disomogenea ma strabordante di motivi d'interesse, Sorrentino si conferma, grazie anche a una fotografia (di Luca Bigazzi) e a una colonna sonora perfette, uno dei migliori registi al mondo, e se Titta, Geremia e il "divo" Giulio erano già entrati a pieno diritto nella galleria dei personaggi memorabili della settima arte, anche questo goffo, indifeso e anacronistico personaggio che si trascina con estenuante lentezza per le strade d'America, con la sua risatina stridula e la sua voce in falsetto, non manca di lasciare la sua traccia nell'immaginario cinematografico.