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THIS MUST BE THE PLACE regia di Paolo Sorrentino

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willard     7½ / 10  17/10/2011 15:35:40Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Paolo Sorrentino appartiene alla generazione cresciuta cinematograficamente negli anni '80-'90 a suon di Gus Van Sant ("My Own Private Idaho"-1991), Wim Wenders (l'apparizione di Harry Dean Stanton la dice lunga a questo proposito, se ricordate "Paris, Texas"-1984), Tim Burton ("Edward Mani Di Forbice"-1990), lo stesso David Byrne (che qui canta, interpreta sé stesso ed è autore della colonna sonora) e il suo "True Stories" del 1986, una schiera di registi dai tempi cinemografici lunghi e riflessivi, in cui a parlare sono più le immagini che le parole.

Con una produzione hollywoodiana e una regia che non ha niente da invidiare ai registi suddetti, Sorrentino dà grande sfoggio di tutto quello che ha appreso dagli stessi: "This Must Be The Place" è soprattutto uno spettacolo per gli occhi, che siano le tranquille strade di Dublino, le sterminate pianure americane su cui corrono nastri asfaltati senza fine o i primi piani del volto di Cheyenne (il protagonista, interpretato da un grande Sean Penn), la fotografia accesa, abbagliante di luoghi e volti rimarrà impressa per sempre nella retina dello spettatore.

La storia segue due corsi: nella prima parte, che si svolge in Irlanda, leggermente più esuberante della seconda, viene presentata la vita annoiata di una rockstar, interpretata dal già citato Sean Penn, i cui virtuosismi espressivi ci mostrano tutta la sua classe, con un personaggio dall'aspetto che è un misto tra Robert Smith dei Cure ed Edward Scissorhands, non più in attività a causa di un tragico evento avvenuto molti anni prima, che vive nell'agiatezza grazie ai suoi vecchi successi, con la moglie (la brava Frances McDormand) e la figlia, interpretata da Eve Hewson, figlia di Bono degli U2 (e tornano ancora riferimenti alle torride atmosfere di un "Joshua Tree", una delle icone epocali nella discografia del gruppo irlandese, agli anni '80 e alle atmosfere dell'Altra America); tra episodi seri e semiseri, si approda alla seconda parte in cui la storia si trasferisce negli States e si trasforma in un road-movie in grande stile, ma con un incedere più lento, racconto di una ricerca fatta di incontri e scoperte, nel tentativo di raddrizzare una situazione personale, su un sottofondo dai risvolti universalmente drammatici come l'Olocausto durante la II Guerra Mondiale.

Imperdibile per gli estimatori di Paolo Sorrentino e per gli amanti del cinema alternativo "on the road".

Ottima la colonna sonora come in tutti i film di Sorrentino, stavolta con ancora più enfasi in quanto curata da David Byrne, che fa anche una sua apparizione nel film nei panni di sé stesso.
Va sottolineato anche il fatto che il titolo del film è tratto da una vecchia canzone dell'ormai disciolto gruppo dei Talking Heads di cui Byrne è stato il carismatico leader.