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PLAY TIME regia di Jacques Tati

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andreacinico     9½ / 10  20/04/2009 18:33:47Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Allucinante!
Uno dei film più complessi che abbia mai visto. Diviso in due parti apparentemente distinte, mantiene comunque quell'elemento comune come l'impostazione prospettica dell'inquadratura in campo lungo ed ampia profondità di campo. Un esempio per tutti è il ripetersi dell'inquadratura dall'alto della struttura alveolare formata dagli uffici asettici della prima parte che trovano un corrispettivo nell'inquadratura dei tavolini del ristorante della seconda parte.
Il film parte in maniera surreale (molte volte non si capisce se i personaggi si muovono all'interno o all'esterno delle grandi strutture composte da ampie vetrate) poi, già nella seconda parte, il ritmo si fa sempre più frenetico e caotico in maniera parossistica fino al romantico epilogo.
Film sperimentale (e molto all'avanguardia per l'epoca in cui è stato girato) che ha, a mio avviso, punti in comune con i romanzi distopici dei primi anni del 1900 in cui si temeva un futuro pervaso da un'eccessiva omologazione (gli appartamenti con ampie vetrate totalmente visibili dalla strada mi hanno fatto pensare alle costruzioni con pareti trasparenti rappresentate nel romanzo "Noi" di Zamjatin in cui ogni azione è sotto gli occhi ed il controllo di tutti e quindi totale mancanza di privacy).
La peculiarità del film in esame consiste nella complessità di tutto ciò che rientra nel quadro in cui si sovrappongono elementi visivi e situazioni comiche a ripetizione, dettagli a volte difficilmente individuabili se non con un occhio molto attento.
Tra le tante metafore del film, una può essere il senso di una società che si arrabatta freneticamente ma alla fine gira in tondo senza concludere niente; proprio come la giostra nel finale rappresentata dalle autovetture che girano nella rotonda che, di volta in volta, qualcuno (come l'uomo che inserisce la monetina nel parcometro) fa ripartire, dando il momento di svago più alto ai turisti (come si evince anche dal titolo del lungometraggio).
Interessante anche l'idea che tutto si svolge in una città che vuole rappresentare Parigi ma in realtà non lo è (infatti il set è stato ricostruito per intero alla periferia della stessa). La vera Parigi è solo un riflesso lontano come appare dalle vetrate delle porte occasionalmente aperte (si vedono la Torre Eiffel, l'Arco di Trionfo e ... in realtà su un'ultima vetrata mi è sembrato di vedere un mausoleo in stile indiano tipo il Taj Mahal che mi ha strappato un sorriso).
Nonostante tutto i turisti si accontentano di fotografare una fioraia che rappresenta l'unico elemento verace che si stacca da uno sfondo geometrico, freddo e alienante tipico di una società standardizzata.
Ci troviamo, quindi, di fronte ad un'opera d'arte che fa dell'immagine il suo punto di forza (le poche parole dette da Monsieur Hulot sono incomprensibili) e che ha come unico difettuccio la prolissità di alcune sequenze a causa, penso, dell'eccessivo esercizio di stile.
andreacinico  21/04/2009 12:11:35Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Rettifica!
Rivedendo alcune parti del film, mi sono accorto che, in realtà, il terzo riflesso che vediamo su di una vetrata (espediente che usa Tati per ricordarci che il film si svolge a Parigi) molto probabilmente è la Basilica del Sacro Cuore che con quelle sue cupole mi aveva fatto pensare ad un monumento orientale stile Taj Mahal. Questo evidenzia il fatto che il lungometraggio in esame contiene talmente tanti dettagli che difficilmente si riesce a cogliere con uno sguardo superficiale.