kowalsky 8 / 10 04/11/2012 19:11:07 » Rispondi Sì è un gran film (9?) tuttavia il rigore espressivo e stilistico di H. - che aveva ytrovato complemento nel magnifico "Il nastro bianco", rischia qui di impaludarsi in un codice emotivo che esprime solo una parte delle sue verità (6). Non è neanche detto che debba esprimerle, a dire la verità. Ma il miglior Haneke capta la dimensione domestica degli anziani con la vera fobia, diciamo Polanskiana, del furto in casa, di diventare corpi e spiriti in mano agli altri (il rifiuto delle cure ospedaliere, fa parte della stessa prevenzione). Lo spazio indifeso è chiuso in un monolitismo che vive delle sue difese, mentre in Funny Games la famiglia non riusciva mai a proteggere se stessa. In effetti gli incubi di Georges e la sua idiosincrasia all'elemento "esterno" nello spazio domestico sono resi in maniera ammirevole, ma il rigor-mortis del decadimento fisico della moglie, tra le note di Schubert e un diario di vecchie fotografie, accelera più il processo della perdìta che l'angoscia per l'isolamento affettivo generato dalla morte imminente. Così il film nella sua veste spoglia e insistentemente (troppo?) autoriale non si priva di manierismi (v. i dipinti) che non avrebbero sfigurato nello spirito visionario e simbolista dell'americano Malick. Ci sono però momenti meravigliosi, come la visita del pianista sopraffatto dalla malattia di Anne, ma lascia cmq. perplessi la "cura d'amore" del consorte così ingenuo e caparbio nel voler occuparsi esclusivamente di lei (respinge le badanti) o stupisce la cecità nel confondere visione e dolore lasciando che il male fisico sia qualcosa che non va visto (cfr. chiude a chiave la stanza dove dorme la moglie). Non perchè non sia legittimo o comprensibile, ma perchè rischia di rimarcare la sua prevedibilità. Nel suo ossessivo rimando a Bergman e soprattutto a Dreyer, il Miracolo d'amore di Haneke ha il sapore di un beffardo esorcismo, di una rivelazione che vede la morte estinguersi. Come se fosse sacrificata al ricordo indelebile della vita che c'era, dell'esistenza che ha il dono illusorio ed egoistico di una promessa immortale. Ma del resto è destinato a fallire proprio per questo. Molti puntano al fatto che la rivelazione del dolore sia associata a una sorta di cinico distacco dalla vita materiale, come se tutto vegetasse con quello che resta e si estingue. Magari io avrò vanificato questa discesa borghese e non riesco a vederne il capolavoro, ma visto che trovo così tedioso e al tempo stesso devastante questo lento precipitare, il mio voto non può scendere da un faticoso ma doveroso 8
LukeMC67 05/11/2012 00:09:07 » Rispondi Mi permetto di dissentire completamente dal tuo commento, Luca, perché ha un terribile difetto-limite: emargina l'umanità che c'è in ciò che viene mostrato (pur nella cura maniacale, quasi manieristica, della forma). Avendo letto una intervista in cui Haneke ha dichiarato di aver costruito il film sulle conversazioni con la moglie riguardo un loro possibile fine-vita con menomazioni importanti, tendo a leggere il film in maniera decisamente più emotiva, anche perché sono stato e sono coinvolto tuttora nelle sue tematiche. E lì, Dreyer o non Dreyer, Bergman (dove?) o non Bergman, il film risulta inequivocabilmente un capolavoro. A meno di non volerne prendere le distanze per difendersene (cosa più che comprensibile).
Dici? Ma per esempio l'espediente cronologico del corpo che a poco a poco si distrugge può essere convenzionale (e sfruttato altrove) e al tempo stesso molto pertinente alle intenzioni diverse di Haneke nei confronti della malattia... alla fine però le cose più belle del film, che lì ho trovato ENORME, sono le intrusioni nella dimora (la figlia, il piccione, il musicista giovane) e gli incubi notturni di georges... perchè ho avuto l'impressione che il film, parlando della morte, se ne voglia allontanare?
Secondo me Haneke è riuscito perfettamente in un esperimento di... dieresi temporale: da una parte c'è la descrizione di un disfacimento quotidiano che diventa "normale" per chi lo vive tutti i giorni (Georges), dall'altra c'è la contemporanea constatazione drammatica di chi vede i peggioramenti di colpo e si sente completamente impotente. Georges assorbe su di sé tutto il dolore del decadimento della moglie e si assume il supremo compito di liberarla definitivamente (salvo poi seguirla, almeno così ho interpretato il bellissimo finale): l'unico modo che ha per distanziarsi da quel cumulo inumano di sofferenza psicofisica è rielaborarla con gli occhi dell'artista quale lui (e la moglie) in fondo erano entrambi. Cinematograficamente quegli inserti sono SUBLIMI e in fondo sono l'unica concessione (che qualche critico ha del tutto impropriamente definito "mélo") al realismo asciuttissimo che contraddistingue da sempre lo stile di regia di Haneke. Forse proprio perché il film nasce da un'urgenza interiore del regista che lo coinvolge troppo direttamente per restare asettico. In fondo la poesia di quell'immagine descrive cosa intende Haneke per "Amore": l'unico sentimento in grado, appunto, di allontanare da sé persino la Morte. Altrui e propria.
Avendolo nel frattempo rivisto -e volendogli dare 20 invece di 10- posso ulteriormente aggiungerti che ciò che ti ha colpito è un'altra di genialata di Haneke: aver saputo mostrare quanto la sofferenza isola dal resto del mondo. La vergogna del (proprio) disfacimento fisico da un lato e la progressiva incapacità (altrui) di sapere come affrontare e cosa fare per affrontarla, porta inevitabilmente ad una estrema intimizzazione del vissuto e quindi a un progressivo quanto radicale distacco dal resto del mondo. A seguito dei postumi di un incidente stradale, tre anni fa sono stato costretto a una degenza di quasi tre mesi in una struttura riabilitativa specializzata: ebbene, ti assicuro che la cosa più difficile da affrontare, soprattutto per chi veniva da fuori a trovarci, era proprio la promiscuità di menomazioni (a volte davvero mostruose) nella quale eravamo costretti a vivere. Non c'era uno spazio "intimo" dove poter concentrare l'attenzione sui propri cari. Questa situazione, paradossalmente, accelerava il processo di riabilitazione perché ti faceva nascere dentro l'esigenza di andartene il prima possibile pur se col terrore di non saper più affrontare la vita "normale" che procede a ritmi forsennati rispetto a quelli dell'Istituto e senza contare tutti gli ostacoli che popolano lo spazio fisico abituale per una persona in sedia a rotelle o costretta a muoversi con le stampelle. Tutte queste dinamiche le ho trovate perfettamente descritte nel filmone di Haneke e mi ci sono ritrovato in pieno. Con una differenza sostanziale: io ne sono uscito e oggi sono una persona normalissima, mio padre che si trova in una situazione analoga a quella della protagonista del film sta precipitando nel dramma descritto. E mia madre sta assumendo comportamenti sempre più paragonabili a quelli di Georges. La morte è diventata argomento quotidiano quasi per esorcizzarla, pur sapendo che è lì, pronta a irrompere in qualsiasi momento. Distacco e compresenza allo stesso tempo.