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PARIS, TEXAS regia di Wim Wenders

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Invia una mail all'autore del commento LukeMC67     10 / 10  22/07/2010 13:13:22Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Ricordo la sala vuota nella quale vidi per ben due volte di seguito questo film in un mercoledì del 1986 dedicato ai cineforum: stavo in galleria, lo schermo gigante sul quale sfilavano le sue immagini magnifiche si univano alle straordinarie musiche dell'allora a me sconosciuto Ry Cooder. Ricordo di aver avuto la sensazione di essere inghiottito nello schermo, di essere anch'io nel deserto del Texas dove, quasi a mo' di contrappunto ironico, sorge questa fantomatica (e fantasmatica) "Parigi"; ricordo la prolungata pelle d'oca nei momenti topici del film, ricordo il profondo disagio e la commozione nella insistita, splendida sequenza della telefonata al Peep Show, ricordo il volto sorpreso dei miei che mi videro scomparire in sala alle 5 e mezzo di un pomeriggio, per poi "riemergere" alle 10 e mezza (avevo 16 anni)!

Oggi "arte-éditions" ha messo in commercio una superba edizione deluxe in DVD del film completo di CD con la colonna sonora superbamente rimasterizzata. Un DVD di qualità eccelsa, che non sfigura persino davanti a un blu-ray, dove la fotografia di Robby Muller è restituita in tutta la sua potenza e purezza e dove la traccia originale ci restituisce la voce roca e frammentata di un immenso Harry Dean Stanton, per non parlare di Nastassja Kinski davvero ai suoi vertici assoluti.

Ci sono registi che hanno segnato con la loro visionarietà il cinema e la fotografia: Wenders è uno di questi (pensate alle montagne selvagge di Ang Lee cui questo film è evidentissimo ispiratore). Agli antipodi rispetto ai canoni della moderna cinematografia, grande appassionato degli States selvaggi, quelli che potevano dare un sogno, un sogno per lui spezzato i cui drammi saranno perfettamente resi nel duro "L'amico americano", ma, soprattutto, nella sequenza finale de "Lo stato delle cose", dove, significativamente, l'ormai fallito regista di un ipotetico quanto cervellotico film di fantascienza viene ucciso a colpi di rivoltella mentre lui sa opporre al suo killer solo la propria macchina da presa i cui ultimi metri di pellicola mostrano in soggettiva la caduta in terra della stessa (fine del film ma anche della vita dello sfortunato regista-operatore).

"Paris, Texas" gronda di quello spirito viaggiatore cui Wenders contrappunta un viaggio interiore nel dolore della separazione, ma soprattutto dell'incomunicabilità; dell'incomunicabilità del dolore stesso, anzitutto; ma anche dell'incomunicabilità tra esseri umani che si sono amati, hanno generato un figlio e poi si sono irrimediabilmente allontanati senza potersi più riprendere. Gli impenetrabili silenzi dell'intenso, inquieto, straziante personaggio interpretato da Harry Dean Stanton parlano più della drammatica (e giustamente celebre) sequenza della telefonata: una delle prove attoriali più profonde dell'intera storia del cinema.

Il deserto del Texas è il deserto dell'anima; la Parigi texana è quanto di più squallido possa esserci, l'esatto contrario della "vera" Parigi; la strada per ritrovare la parola è, letteralmente, una traversata nel deserto: la metafora viene rilessicalizzata da Wenders in modo da rendercela potentissima, palpabile; gli accordi "stirati" fino all'inverosimile dalle chitarre "violentate" da Ry Cooder suggeriscono ulteriore maestosità di fronte ai paesaggi esteriori ed interiori ricorrendo al minimalismo più essenziale e sofferto che possa esserci. Sembra quasi di vedere le dita del grande Ry mentre sollecita all'inverosimile le corde del suo strumento con espressione tirata e compiaciuta al tempo stesso...

Il dramma del protagonista è il dramma dell'uomo-maschio che, di fronte al mistero della vita generata (il proprio figlio), deve fare i conti con un se stesso che è altro da sé prima di abbandonarlo a un ineluttabile ritorno verso la maternità-femminilità, di gran lunga più potenti, estroversi e vitali della sua estenuante ricerca di sé attraverso il viaggio. La contrapposizione maschile/introversione - femminile/donazione è portata al parossismo da Wenders e condotta al suo cortocircuito: il maschio, costretto ad uscire da sé per compiere la sua opera di inseminatore, torna nei propri abissi interiori senza essere contaminato dal materno che inesorabilmente chiama a sé quella vita prima cullata dentro e poi generata. Curiosamente, la "donazione" materna diventa sì accoglienza ma anche chiusura mentre l'introversione quasi egoistica dell'uomo diventa occasione di fuoriuscita, sia pure verso un Ignoto. Eterogenesi dei fini? Estremi che si toccano ma che non si vedono?

Su tutto campeggia l'impossibilità di comunicare i sentimenti più profondi, vero dramma del genere umano ferito da strappi e incomprensioni destinati a degenerare irrimediabilmente proprio perché non alleviati e poi guariti dal potere della Parola. L'immagine può estasiare, tuttavia chiede sempre di essere rinnovata per produrre i suoi effetti; la parola scava ma può anche ricostruire, ed è disponibile in ogni dove. I grandi silenzi e i grandi paesaggi si infrangono magistralmente nell'incedere lento di questo ispirato capolavoro di rara sensibilità, buono per ogni tempo e in ogni luogo.