caratteri piccoli caratteri medi caratteri grandi Chiudi finestra

UN GIORNO DEVI ANDARE regia di Giorgio Diritti

Nascondi tutte le risposte
Visualizza tutte le risposte
Invia una mail all'autore del commento tylerdurden73     7 / 10  07/11/2014 11:39:56Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Il dramma famigliare di cui è stata vittima induce Augusta a partire alla volta della foresta Amazzonica. Diventa imperativo per lei ritrovarsi, esorcizzare quel dolore insopportabile affiancando una missione cattolica guidata da Suor Franca con l'incarico di aiutarla ad evangelizzare gli indios.
Augusta entra in contatto con un mondo immenso e lussureggiante sperando di anestetizzarsi, di dimenticare, di cancellare quell'orrenda pagina intrinseca ad un mondo che la madre le ricorda esistere.
La parola di Dio e il sostegno all'indios però non bastano a mettere a tacere la sua disperazione, soprattutto quando capisce quanto l'ingenuità dei locali venga manipolata dai poteri forti con il silente benestare delle istituzioni ecclesiastiche.
E allora via, verso la città di Manaus, dove trova alloggio nella favela di Palafitta. Qui recupera la voglia di sorridere, di relazionarsi con il prossimo. Diventa punto di riferimento di una comunità afflitta da problemi d'ogni genere e sull'orlo della cancellazione eppure in grado - in curiosa antitesi col primo film di Diritti "E il vento fa il suo giro"- di regalare conforto, gentilezza e sorrisi senza esigere alcun tornaconto.
Ma anche questo idillio è destinato a esaurirsi. Augusta riparte e si isola, come a volersi negare o nascondere, a non farsi più rintracciare da quel dolore che è sempre in agguato, pronto a divorarla da dentro e a colpire sfruttando il minimo cedimento.
Terzo film per Giorgio Diritti, forse il meno folgorante in quanto eccessivamente stratificato e risolto solo in parte. Caratterizzato da spiritualità che si fa disillusione, da intimismo e impegno civile, simbolismi di varia natura, il tutto gravante sulle spalle di una Jasmine Trinca non sempre all'altezza
Il bandolo della matassa sembra più volte smarrito, per poi riapparire condensato in una narrazione ellittica di indubbio fascino, in cui l'autore conferma il rapporto simbiotico con quella natura da sempre componente centrale delle sue opere; non a caso imperversano le inquadrature a campo largo in cui si estremizza il parallelo tra la bellezza colossale del panorama con la piccolezza dell'uomo e dei suoi affanni.
Tuttavia il regista bolognese conferma di avere poco o nulla da invidiare a colleghi più pubblicizzati/blasonati. Sicuramente è esponente di un cinema poco immediato e quindi meno visibile, ma vale davvero la pena immergersi nella sua idea cinematografica sempre molto rigorosa, compassata, eppure generosa di emozioni materializzate in contesti scenici piacevolmente intimorenti.