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LUCI DELLA RIBALTA regia di Charles Chaplin

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Terry Malloy     10 / 10  25/12/2013 12:20:45Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
C'è una sorta di meta-emozione a commentare questo film. Il fatto che anche ora, dopo più quarant'anni il capolavoro finale, assoluto di Charlie Chaplin ti renda le dita instabili, mentre corrono sulla tastiera, e devi tirare fuori da un cervello che la magia evocata da quell'artista non riesce mai ad afferrare, poche parole, quello che per un uomo come sei ha significato questo film.

Ogni parola non può significare ciò che è riuscito a fare Chaplin con il suo "Limelight". Esprimere in forma di immagini, di carne viva di celluloide il suo vissuto di attore e autore. Nessuno, diceva Bazin in un suo memorabile e commuovente articolo, è stato in grado nella cavalcata dell'uomo novecentesco verso la forma terminale del cinema, di compiere l'operazione intellettuale, umana e artistica di Chaplin. "Limelight" è il viaggio al termine del cinema. E' un film in cui i piani consueti della metafisica si sono scombinati, si sono intrecciati, hanno idealizzato un'idea in un unicum artistico di meravigliosa e insuperabile bellezza e profondità. Limelight è un capolavoro sconvolgente perché è l'autonarrazione di una vita e delle sue molteplici possibilità, ma lo è vincolata a un referente vero: l'uomo-Chaplin. Che muore sullo schermo, sublimando la propria esperienza di uomo di cinema mettendo a nudo ciò che sta oltre il palco. E' la prima vera autobiografia che si perde nella metafisica larga e inafferrabile del mondo dell'immaginazione. Calvero è allo stesso tempo ciò che non è e ciò che avrebbe potuto essere Chaplin, nella sua vecchiaia. Una meditazione universale sull'artista, sul pubblico e sui committenti (le tre anime dell'arte secondo Gombrich) canalizzata nella propria esperienza. Chaplin smentisce ogni luogo comune sull'autobiografismo, mettendo se stesso in un personaggio che ha pericolose somiglianze con lui e la sua carriera. Gli affida ogni sua idea irripetibile, ogni suo sogno, ogni sua ambiguità, ogni sua velleità e lo travolge con la morte. E' una morte di artista, ma forse anche suicidio, o omicidio. Bazin parlava non a torto di "morte di Moliére", sottolineando come Chaplin sia riuscito ad andare oltre, a sconvolgere l'ontologia del mezzo cinematografico. A parlare del segreto, di ciò che si sarebbe dovuto tacere poiché impossibile da asserire, il convulso rapporto che ci lega all'idea di attore, all'idea di mitologia, di genio cinematografico e artistico, a quel lavorìo della vita e dell'invecchiare che tocca la nostra condizione metafisica di esseri umani. L'abuso della parola "metafisica" si rende inevitabile quando un uomo riesce a toccare i più intimi e sconvolgenti temi della nostra vita cognitiva e interiore, il problema dell'ispirazione, delle sostanze stupefacenti, degli amori idealizzati, della distonia tra l'insopprimibile bisogno di avere dei modelli e riconoscere che nessun modello è quello che a noi si confà, alla dicotomia tra corpo e anima, l'uno destinato all'invecchiare, l'altra sempre giovane (il mito greco di Tithono e Aurora) ad amare ciò che è immortale, e il conforto degli amici e colleghi, anche loro destinati a essere malvoluti dal pubblico, e la natura di questo pubblico, che non è solo il pubblico dell'artista, ma anche quello da cui ogni giorno ci nascondiamo creando false identità, annegandoci nell'azione pacificatrice e distruttrice di una molecola.

Siamo alle fasi finali di un uomo molto intelligente, un genio, che riflette sugli stessi nostri temi universali, sulla nostra banale vita intelligente, sugli uomini e le donne che la popolano, sul dolore e l'angoscia sorda che accompagnano la nostra solitudine, e poi c'è la messa a nudo delle angosce di un artista destinato a invecchiare, dietro il trucco (magnifica la scena in cui si lava via il belletto), dietro l'alcool, dietro ogni sconto che fa alla sua mancanza di ispirazione che, come una donna malata e insicura, visita i nostri sogni restituendoci solo il sapore amaro di un'ambiguità che si esprime sotto la presa di una domanda sconvolgente e che con tanto dubbio accompagna la nostra nascita, la nostra vita sulla terra e il nostro morire, dietro a un palco, con la scialba compagnia degli amici e colleghi di sempre: "Sono o non sono artista?".
ds1hm  12/03/2014 11:42:17Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
molto bello ciò che scrivi...peccato che ci sono voluti quasi 10 anni dal primo commento a questo capolavoro per racimolare 50 voti...mandarlo così in classifica nel piccolo mondo di questo sito....ed avere forse in questo modo la possibilità che qualcuno in più (legato appunto questo piccolo mondo) si accorga di cosa sia l'arte...l'amore...la vita.
Terry Malloy  12/03/2014 15:42:53Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Ti ringrazio. Non è difficile capire come mai questo film sia poco commentato. Digerire un Chaplin invecchiato, in una storiografia mitizzata della sua opera (ben inferiore) giovanile, non è facile. Inoltre Limelight è un film sì bellissimo, ma assai complesso. Nonostante ciò che ho cercato di esprimere nel commento (saccheggiando dai saggi di Bazin in larga parte), io stesso fatico a comprendere ciò che è questo capolavoro, ciò di cui cerca di parlare. Non parliamo poi del fatto che Limelight appartiene a quei classici che a fatica il pubblico posteriore riesce a far propri. E' un modo di fare cinema che ormai non ci appartiene più, nemmeno storicamente. Capirlo appieno (per quanto detesti usare questa formuletta insignificante) significa anche appartenere all'epoca-Chaplin. Non è un caso che in "Morte di Moliére" Bazin parlasse quasi esclusivamente di come il pubblico in sala, e quello in generale, aveva recepito un'opera simile. Il rapporto convulso con il mito di Charlot, di Chaplin (e già di Calvero). In un certo senso abbiamo assorbito meglio Verdoux, una tematica e una storia più "istituzionali". Limelight, per quanto classico universale, è legato al mondo e alla persona di Charles Spencer Chaplin, e chi non ne fa parte rimane fuori quasi per definizione. "Purtroppo" ricorderemo sempre Il dittatore, la Febbre dell'oro, il monello. Le opere più mature sono il punto di arrivo di un travaglio che riguarda uno spettatore consumato e molto esperto. E parlo di "travaglio" perché la mia esperienza cinematografica è sempre stata discontinua, anche se fortissima. Siamo spettatori sofisticati, dobbiamo ammetterlo senza troppa umiltà, ma è innegabile che sono arrivato a Limelight solo grazie a un corso universitario di cinema e ai saggi di un grande critico. A quindici anni guardai tutti i capolavori del giovane Chaplin. Ma Limelight è un'altra cosa. Forse il film più bello della storia del cinema.