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GRAVITY regia di Alfonso Cuarón

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Barteblyman     8½ / 10  09/01/2014 10:15:01Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Per quel che mi riguarda nonché in buona e variopinta sostanza questo è tra i più bei film visti nel 2013. Spiegarne le motivazioni (senza ovviamente spoilerare) è cosa un pochetto ardua giacché ciò che maggiormente gravita a visione ultimata di Gravity è la sensazione di aver visto qualcosa di finalmente diverso. Innanzitutto a livello formale e subito dopo a livello sostanziale. Vi è quindi il pensare che -ovviamente- il film non è stato girato nello spazio, che abbia richiesto spazi molto più limitati, e vi è quindi il dedurne il sorprendente lavoro di regia. Bastino solo i primi quindici minuti, illusori piani sequenza giocati con estrema morbidezza su più soggettive. Non so tu cara lettrice e caro lettore ma io ne ero incantato. La fluidità, la leggerezza nel passare dall'esterno all'interno della tuta d'astronauta e poi ancora all'esterno. Questo sulfureo cambio di prospettive, questo darti la sensazione di essere tu stesso sospeso nello spazio e quella inquieta sensazione di trovarsi in balia dell'abisso. La sensazione che il confine dall'essere al sicuro all'essere in pericolo rintracciasse inedite strutture. Ciò che ti separa dal perderti nelle tenebre spaziali è un cordone ombelicale. Un cordone strattonato, maltrattato, un cordone col quale persino giocare. Come stare sospesi nel vuoto e provare a sporgersi il più possibile, abbandonando per un istante la presa sicura. L'essere circondati dalla concreta possibilità di morte. Da dire che il film non l'ho visto in 3D eppure sembrava comunque di vederlo in 3D nonostante lo abbia visto steso a letto. 3D che tra l'altro non è che io ami particolarmente, come concetto occhialico oltretutto. Più che altro preferirei avere quattro orecchie e quindi un 4S. Due orecchie non sono troppo poche? Dico, in generale. Orecchie a parte, Gravity è come se avesse il 3D incorporato. A prescindere dal fattore mainstream o anzi in loco al fattore mainstream. Gravity è un mainstream (ho scritto mainstream troppe volte) ove viene pressoché spostato un non trascurabile fattore: il sonoro nell'azione. Davvero suggestivo l'assistere al caos muto. Più che il pur buon accompagnamento musicale è l'azione a farsi sonoro. E' l'immagine, la percezione visiva del sonoro; la sottrazione rumorosa. La forma insomma è indubbiamente il punto forte di questo formidabile film. Detto questo... Or dunque.

Or dunque se la forma (questo certo sì) è quanto di più bello visto nella annata duemilaetredici, Gravity può ben donde lasciare perplessi se non magari inorriditi dalla carenza di sostanza. L'amata sostanza, ciò che fa la differenza. Si dirà quindi, bellissimo fumo e pochissimo arrosto. Legittimo, sacrosanto, comprensibile. Io però non la penso così. A me il film ha emozionato anche da quel punto di vista lì, dico il punto di vista della sostanza. Non dice niente di interessante o meglio lo dice ma non lo si sente, come i suoni nello spazio. Gravity poteva elevarsi ad una più audace riflessione sull'essere umano e divenire -chissà- un vero e proprio capolavoro? Poteva diventare un trip allucinante con incisive questione metafisiche? Be', tutti i film possono elevarsi ad altro; io stesso sarei potuto diventare un formidabile schiaccianoci. Il film di Cuarón per me funziona benissimo così com'è. E' coerente con sé stesso ed è un film che si trova in uno strano limbo, come i personaggi. Personaggi che rintracciano alle spalle la bellezza del pianeta Terra, soggetto oltremodo presente e atroce nella sua impossibilità. E personaggi che si trovano anche ad essere invisibili corpi in un qualcosa di enorme come lo spazio. Solo una fune o delle braccia o anche solo pochi centimetri di dita (e quella dita che si aggrappano si percepiscono oltremodo) per poter, per quanto possibile, mettersi al sicuro. Quel sottilissimo confine tra il vivere e il morire. E il confine del film? Dove risiede il film? Dove risiede il suo genere? Be', riprendendo (perché no?) lo scrittore James Blish che a sua volta cita Theodore Sturgeon (altro scrittore di fantascienza): "Una bella storia di fantascienza è una storia che presenta un problema umano, e una soluzione umana, che non sarebbero mai esistiti senza la sua componente scientifica". Tralasciando questioni di veridicità astrofisica (questioni inutili e noiose) Gravity la sua componente scientifica che scatena casini ce l'ha eccome e quindi, stando a questa definizione, rientra nel genere fantascientifico. Tuttavia sovente il cinema di fantascienza propriamente detto (tout court) ha come contesto il contesto di altri pianeti o anche il contesto dello stesso pianeta Terra ma mutuato dalla tecnologia avanzata. Non è il caso di Gravity. L'episodio raccontato nel film poteva benissimo accadere sulla terra ferma (alla fine è un incidente sul lavoro). Non ci sono mostri, non ci sono capsule criogeniche, non ci sono missioni interstellari. Il film non è neanche ambientato in un futuro prossimo ma è collocato o dislocato nei nostri giorni. La dottoressa Stone e il comandante Kowalsky sono due persone normalissime, non sono muniti di pistole laser ma di trapani da lavoro. Quindi, Gravity che genere di film è? Questa per me difficile categorizzazione è un ulteriore fattore di fascino.

Gravity è un film di fantascienza ambientato nel presente. La fantascienza del film risiede in un elemento estremamente forte: l'isolamento. L'isolamento sul pianeta Terra sarebbe stata tutt'altra questione. L'isolamento nello spazio delinea una fantascienza... espressionista. Sì, espressionista, hai letto bene giovane donna e giovane uomo. "E' più patetico e spaventoso l'isolamento straordinariamente profondo*". Abbiamo l'isolamento fisicamente più spaventoso che si possa immagine e questo isolamento maestoso struttura in modo singolare il suo essere film di genere fantascientifico. La dottoressa Ryan Stone è prigioniera di una situazione più che di una struttura precisa. L'unico modo che ha per liberarsi dalla prigionia dello spazio è quello di entrare all'interno di un mezzo di trasporto. L'illusoria libertà dello spazio aperto e la libertà vera e propria garantita dall'imprigionarsi in un modulo. Il luogo più prossimo alla casa nonché il luogo di rinascita possibile (e mi riferisco alla sequenza più splendida del film). Un surplus alienante quindi. Fuggire da una minaccia che non è neanche una minaccia vera e propria ma è l'Essere dello spazio aperto. Qui l'immagine si fa discorso, si fa argomentazione. Sarebbe stato pleonastico e cioè di troppo appesantire una "questione" che si svolge praticamente in tempo reale. Appesantire quello che al film basta suggerire. Non a caso durante uno dei dialoghi più introspettivi del film il regista decide, come lo stesso comandante Kowalsky, di avvicinarvisi da uno specchietto retrovisore. Sospendendo la musica ma lasciando che l'argomentazione sia inevitabilmente di spalle. Facendo defluire il dolore in uno sguardo verso quel pianeta ove tutto si consuma e dove la vita DEVE procedere. C'è tutto un mondo che non ha bisogno di narrazioni ulteriori in quella scena e Cuarón lo tratteggia con la delicatezza più consona. Con un lieve movimento di macchina. Senza pippe aggiuntive. Non è cosa da poco. Anzi.

Nel gioviale "Spazio e tempo nel cinema di fantascienza" di Vivian Sobchack, l'autrice scrive: "In ambito letterario, l'intersezione fra femminismo e fantascienza non solo ha provocato una decostruzione, ma anche una ricostruzione all'interno del genere." Sandra Bullock. Sandra Bullock è una di quelle attrici che ai più sta sulle palle. A me piace. La prima volta che l'ho incontrata è stato quasi certamente sull'autobus di Speed. Ho pensato che fosse ottima e che gran parte dei ruoli che sceglieva non riuscivano a tirar fuori il suo potenziale. Pensavo, cavolo Bullock, perché? E a un suo pessimo film se ne aggiungeva un altro. Alla fine ho smesso di pensare cavolo Bullock, perché? e sono andato avanti con la mia vita e posso dire che probabilmente quella della Bullock è proseguita meglio (cinematograficamente parlando vedisi l'oscar per The Blind Side). E poi eccola in un film che è il suo film. Sì, c'è anche George Clooney (delizioso e rassicurante chiacchierone) ma c'è soprattutto il personaggio della dottoressa Ryan Stone. C'è soprattutto Sandra Bullock, mente e corpo. Uno snello e leggiadro corpo femminile a spasso nello spazio. Una figura fluttuante che, a tratti, sembra disegnata da Masamune Shirow. Il femminile della dottoressa Stone è un femminile fortemente e squisitamente materno. Gravity è il racconto dell'ancella Ryan Stone (giusto per citare un must della fantascienza femminista ad opera di Margaret Atwood). Indubbiamente distante dall'immortale icona fantastic-femminea della Ripley di Sigourney Weaver (splendida guerriera contro il fallocentrico alieno), la Stone di Sandra Bullock è parimenti materna. Meravigliosamente materna. Per niente al mondo lei spezzerebbe quel cordone, "Tu non vai da nessuna parte". Il distacco purtroppo va visto, per assorbirlo, per metabolizzarlo. Al distacco va dato un volto, va data una qualche esteriorità. L'abbandono va collocato.

La paura del restare soli nel luogo iconograficamente più solitario. Una sensazione per nulla piacevole, il viverlo concretamente. Si arriva davvero al parlare da soli, all'aggrapparsi a qualsiasi cosa. Il monitor spento di un cellulare, il calore intuito dalle luci di una abitazione. Figurarsi il restare soli scorgendo milioni di luci sottostanti. Quando si è soli ci si parla. Non è ridicolo né puerile quindi sorridere per l'abbaiare di un cane e non è men che mai idiota ascoltarsi. Ogni cosa che possa colorare quella forma di oscurità è ben accetta. E qui faccio ovviamente riferimento ad un'altra scena del film che non spoilorerò ma che io non ho trovato per niente e ribadisco per niente assurda. Anzi. E' un tocco poetico in più. E' quello che tutti vorremmo in determinate situazioni ed è quello che accade davvero. Succede. Succede concretamente. Per quanto possa valere lo dico per esperienza personale. Sopravvivenza e non solo, vi è elaborazione e concretizzazione. Gravity è una spettacolare e bellissima riflessione per immagini dell'esperienza della perdita e della solitudine, in chiave sci-fi, certo. E' il simulacro visivo dell'aggrapparsi con le unghie e con i denti all'esistere. E' un cinema stupefacente e decostruttivo ben più di altri film della medesima annata, quelli sì abbastanza spocchiosi (vedisi l'orrido La grande bellezza o il buono ma estremamente sopravvalutato Spring Breakers). Or dunque e ben donde mi vien da dire, a pseudo mie riflessioni raggiunte, che Gravity non è poi tra i più bei film del 2013 ma è -per il sottoscritto- il più bel film del 2013.

* T.J. Ross, Focus on the Horror Film