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MOOD INDIGO - LA SCHIUMA DEI GIORNI regia di Michel Gondry

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Invia una mail all'autore del commento LukeMC67     7½ / 10  19/09/2013 09:35:27Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Dall'unione di due depressioni collettive, quella del Belgio rimasto per due anni senza un governo perché le due Comunità che lo compongono sono a un passo dalla rottura definitiva e quella della Francia in piena crisi economica che ormai è in mano a Marine Le Pen (il 55% dei francesi si dice vicino alle sue idee e il 30% è pronto a votarla), arriva un film eccessivo, ridondante, spietato, tanto perfetto stilisticamente quanto crudelmente lucido sulla visione dei nostri tempi. Ecco, se volete una metafora (e poi neanche tanto!) efficace per descrivere il declino della nostra Europa e le prospettive che ci attendono, affrontate la visione di questo bizzarrissimo "Mood Indigo" nel quale Michel Gondry scatena senza freni (è il limite del film, l'assenza di freni) tutto il suo talento visionario, la sua competenza tecnica e il suo pessimismo senza scampo.

C'è una sorta di fil rouge tra Buñuel, Carax, Jeunet&Caro e lo stesso Gondry: tutti registi operanti in area francofona legati dal surrealismo più radicale, artisti dalla visione irrimediabilmente cupa (ma, ahinoi, anche anticipatrice di andamenti reali) che hanno deciso di mostrarci la realtà amplificandola fino a farla esplodere per risonanza.
Ma tra le possibili fonti di ispirazione di questo film non posso non citare quel prodotto iperrealista che aprì la strada al genere docufiction: "C'est arrivé près de chez vous" (da noi "Il cameraman e l'assassino", 1992), film-maledetto del trio Poelvoorde-Belvaux-Bonzel, non a caso belga anch'esso.
Quest'opera di Gondry si piazza proprio al centro tra Buñuel, Jeunet&Caro e il trio belga, posizione che ne determina la grandezza ma anche tutti i limiti.

Dalla sua Gondry può vantare uno stile perfettamente riconoscibile (la gita sulla nuvola o le composizioni materiche che descrivono oggetti reali o corpi sono un indizio eloquente e costante nelle sue opere) e invenzioni assolutamente godibili (il topolino, il ballo molleggiato sul jungle ellingtoniano, la casa che sembra un TGV, la sala dei writer sincronizzati su macchine da scrivere a binario, il pianoforte che sforna cocktail a seconda del ritmo di suonata, la pattinata sul ghiaccio, il prete coi suoi riti stranissimi e la chiesa che gestisce, ecc.); ha inoltre un décor che miscela sapientemente vintage e ultramodernità, attori a loro agio in questa salsa sapidissima, begli (e a tratti persino ruffiani) effetti visivi e sonori, una fotografia arditissima che parte da uno sfavillante colore sul quale piano piano si insinua l'indaco del titolo che scivola poi in una sorta di bianco e nero seppiato col quale Gondry ci immerge nella catastrofe finale (gli ultimi 20 minuti sono terribili e geniali allo stesso tempo).
Discorso a parte merita la colonna sonora, in particolare Duke Ellington che è onnipresente e citatissimo a cominciare dal titolo che è anche rivelatore dell'atmosfera del film: "Mood Indigo" possiamo infatti tradurlo come "Umor viola" e rimanda all'espressionismo musicale del grande Duca nero da cui Gondry si dichiara esplicitamente ispirato.

Ma prima ancora di Ellington, o forse insieme a Ellington, Gondry parte da Boris Vian, l'anima eclettica e inquieta per eccellenza della Rive Gauche: il film dichiara infatti di essere una trasposizione del romanzo "La schiuma dei giorni" (che fa da sottotitolo a "Mood Indigo"), pamphlet senza tempo di una virulenza assoluta di cui Gondry mantiene intatta la trama e traspone felicemente (sbeffeggiandola un po', a dire il vero) tutta la carica polemica contro l'esistenzialismo imperante ai tempi di Vian: magnifica la trasposizione visiva di Sartre (ribattezzato Jean Sol Partre), degli eventi di cui era protagonista e dell'ossessione del co-protagonista che arriva a comprarne un feticcio che ricorda il teacher di "The Wall" (altro film cui sembra ispirarsi Gondry) e che scatenerà la furia omicida della fidanzata americana. E Raymond Queneau (con la celeberrima trasposizione di "Zazie dans le métro" di Louis Malle) dove li mettiamo?

Insomma, Gondry sheckera e miscela almeno Artisti dalla carica esplosiva (Vian e Ellington) rileggendoli con la lente surrealista di uno Scarfe (il disegnatore di "The Wall") o di un Queneau e dei suoi conterranei Jeunet&Caro.

E proprio in questa operazione stanno tutti i limiti del film: chi conosce e apprezza la filmografia del duo francocanadese, infatti, è portato a chiedersi se questo lungometraggio non sia un loro parto mal riuscito piuttosto che un'opera originale di qualcun altro. Così come si ha l'impressione che tanta polvere da sparo accumulata sia esplosa nelle mani e nella testa del regista dando la sgradevole sensazione di un'operazione ardita, frutto di una palese sopravvalutazione dei propri (notevoli) mezzi. Inoltre fatica a venir fuori la sublime poetica di Vian che, per dirla con Daniel Pennac, riuscì "a utilizzare così bene la poesia e la leggerezza del meraviglioso per raccontare una vicenda assolutamente tragica". In questo film la grande assente è proprio la leggerezza del meraviglioso, sostituita dalla (estrema) pesantezza dello sfavillante. Si dirà che questa è la caratteristica dei nostri tempi e che quindi Gondry è stato grande nel saperla utilizzare sostituendola alla poetica forse un po' démodé di Vian. Il tempo ce lo confermerà: se quest'opera di Gondry merita assolutamente di essere vista perché offre davvero tantissimi spunti di riflessione riempiendo occhi e orecchie, resta però da capire se si tratta di un capolavoro visionario che si affermerà come tale nel tempo o il pretenzioso, solipsistico esercizio di stile di un artista tecnicamente ultra-dotato che al culmine della sua poliedrica carriera ha deciso di vomitarci addosso tutte le sue ossessioni artistiche e intellettuali in un videoclippone da 129 minuti.