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IL CAPITALE UMANO regia di Paolo Virzì

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Terry Malloy     8½ / 10  13/01/2014 14:46:06Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Svanito ormai l'effetto-Sorrentino, Virzì (da sempre, anche per chi snobisticamente non ci credeva, sua controparte "leggera" anche se forse è il contrario) rincara la dose dell'amarezza italiana (e della sua intrinseca e, come tale, paradossale bellezza) e della follia. Lucida stavolta, non poetica come era per la Roma di Jep Gambardella. "Il capitale umano" più che essere un film sulla crisi, è un film nella crisi. Il Giova Bernaschi è lo sfondo impazzito e debordante su cui ruotano tante piccole storie di umanità sofferente e arrabbiata, dai vaffa isterici di Carla, dalla rabbia violenta e infantile del Massi a quella della buona Serena, fino a tornare alla rabbia istituzionale del primo uomo di questo film, un uomo qualunque travolto dalla oggettiva crudeltà del mondo. Questi personaggi meravigliosi sembrano scintille che si diffondono a partire dal movimento egoistico e frenetico di una trottola meccanica, sono brevi e fugaci quanto quelle scintille, ma sono lampi di luce che ci interessano di più di una trottola la cui rotazione (che deve continuare a girare per rimanere attiva, esattamente come il becero sistema del capitalismo milanese che ha scommesso sul fallimento di un paese intero) rende invisibile e incomprensibile l'osservazione della vera essenza di quel fenomeno. La vita del Giova non può essere interessante per uno scrittore di cinema, di storie, ma solo le vite che girano attorno al Giova, che ne sono macabramente attratte (come per l'arrampicatore Dino Ossola, o per Luca, buono, ma catturato dal fascino tremendo e vuoto delle "case dei ricchi") e che si sforzano di ritagliarsi un mondo privato che non sia toccato dal potere di rendere tutto "profitto": il caso del professor Russomanno, tanto macchiettistico (unici e sporadici casi dove rimpiangiamo la scrittura "pittorica" sorrentiniana) quanto economicamente veloce ad esaurirsi.

Stupisce di quanto angusto sia il mondo del Giova, rispetto all'enormità delle proprietà in cui ha "deciso" di condurre la propria esistenza, un'esistenza fatta di rituali sempiterni ("sorry", "I'm sorry"), di allusività condensata in un linguaggio inaccessibile e criptico, un'antilingua come un'antivita, un personaggio che per avere tutto deve sacrificare tutto alle ragioni del mercato finanziario, in cui l'amicizia spensierata del giocare a tennis in due è solo un pretesto per assorbire altro capitale, anche umano: "Quindi giova oggi niente partitina eh?".

Virzì è un regista che apprezzo in quanto sempre capace di migliorare la propria tecnica, la propria scrittura. Non lo ricorderemo come un genio del cinema, ma come qualcuno che ha detto qualcosa di un'epoca strana e decadente: insuperabile dunque diventa il montaggio, la fotografia, il missaggio sonoro, una colonna musicale new age piuttosto banalotta basata sul contrappunto concettuale con il vuoto di un giro per negozi a Milano, la sceneggiatura preparata con un meccanismo a orologeria impeccabile, attenta a caratterizzare, a eliminare il superfluo, il prevedile, lo scontato, il piacente, tutto quello che ci attendiamo da un film italiano di rito. No, nulla di banale nel nuovo gioiello di Virzì, ogni dialogo è un'ulteriore conferma del tentativo di costruirsi uno stile, un linguaggio che definirei un nuovo realismo. Un realismo che all'impalcatura ideologica della storia oppone la normalità di un piccolo pezzo di storie umane intrecciate, fotografate in gesti e pose quotidiane, e in questo quotidiano c'è il tempo per tutto, anche per un bacio estorto con la forza ma che chiude poeticamente un film che di poetico ha poco. Unica concessione al melò buonista rimane il sorriso dei due giovani amanti, quasi pratoliniani, tipico ending di un sentimentalismo all'italiana su cui però bisogna sempre indulgere con la tristezza mortale dei precedenti 110 minuti di film.

Al calore di un abbraccio tra una madre che si conquista il suo diritto, per quanto persona stralunata e "che non ci capisc[e] più nulla", risulta stupendo il contrappunto iniziale di un'insulsa morte di strada, in cui non si riesce a trovare un colpevole, come nella miglior tradizione dell'oggettivismo letterario (da Verga a Bunuel). Stringe il cuore di tutti quest'omicidio stradale di cui seguiamo i passi fino alla rianimazione, dove siamo fantasmi accanto alla moglie disperata, esattamente come Serena. Nel momento dell'impatto, vediamo la vita scivolare via da questo anonimo capitale umano che la letteratura e il cinema ci hanno restituito. Un istante per articolare le ultime imprecazioni di dolore, il gelo esistenziale di un non-luogo che le tinte fosche della solitudine di fronte alla morte, non di certo quelle della Brianza reale.
Terry Malloy  13/01/2014 14:49:08Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
"Un istante per articolare le ultime imprecazioni di dolore, il gelo esistenziale di un non-luogo che HA le tinte fosche della solitudine di fronte alla morte, non di certo quelle della Brianza reale." (correzione necessaria)