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LA SIGNORA DI SHANGHAI regia di Orson Welles

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ULTRAVIOLENCE78     8½ / 10  06/05/2009 22:09:19Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
-“Ma perché ride?”
-“Perché muoio”

Vedere Rita Hayworth trasfigurata da “dark-lady” fa un bell’effetto, ad onta dei timori e delle remore che all’epoca aveva manifestato la produzione. Ma i pregi de “La signora di Shanghai” vanno, ovviamente, oltre. E’ tutta l’aura che ammanta questa pellicola ad avere un impatto efficacissimo: un fascino oscuro che promana dalle caratterizzazioni dei personaggi e dalla costruzione scenica di gran parte delle ambientazioni.
Ogni primo piano rivela un dato peculiare del soggetto inquadrato: di Michael (un “adorabile sciocco”) l’ingenuità mista al disorientamento indotto dal progressivo (e imprevisto) disvelamento delle personalità; di George il suo essere luciferino; di Rita l’aspetto conflittuale tra la tensione al male e quella all’amore; di Arthur il contrasto tra un senso di sopraffazione e possessività e quello, opposto, di soggezione riveniente dal suo sentimento nei confronti della donna amata. Come funzionalmente collegate a queste articolate caratterizzazioni, si pongono talune sequenze: su tutte quella dell’acquario, dove i giochi di luci, ombre e rifrazioni contribuiscono a calare i 2 attori in un’atmosfera di ambiguità e vaghezza (con l’effetto suggestivo dei pesci e delle testuggini che si muovono dietro di loro); e poi quella celeberrima (omaggiata da Woody Allen in ”Misterioso omicidio a Manhattan”) degli specchi, dove la rocambolesca e spettacolare sparatoria assume una forte connotazione metaforica. Bellissime, inoltre, quelle inquadrature che, ora dal basso ora dall’alto, riprendono in certi frangenti i dialoghi tra Michael e George, mettendo in risalto sia l’ambiziosità sia la follia dei piani “diabolici” del secondo.
Un “noir” indimenticabile, giocato su un intreccio di intrighi che si risolvono in una serie di omicidi aventi per vittime gli stessi artefici, visti negativamente, nella similitudine degli squali, come animali famelici destinati ad un reciproco annientamento.
La chiusa, nella sua forma didascalica, è la giusta conclusione per un’opera dall’impianto narrativo imperniato sulla voce fuori-campo.