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ZELIG regia di Woody Allen

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kafka62     9½ / 10  03/03/2018 16:10:22Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
"Zelig" è probabilmente il più clamoroso falso dell'intera storia del cinema. Girato come un documentario-inchiesta sulla vita del fantomatico Leonard Zelig, strabiliante uomo-camaleonte assurto a grande popolarità negli Stati Uniti a cavallo tra gli anni '20 e gli anni '30, il film camuffa abilmente l'incontenibile vena fantastica di Woody Allen mediante l'utilizzo di filmati e cinegiornali d'epoca, di materiale originale realizzato con il medesimo taglio di quello di repertorio, di interviste a personaggi famosi che commentano e teorizzano con seriosità i fatti narrati, col risultato finale di rendere plausibile e verosimile una storia assolutamente e totalmente inventata. Forse solo il misconosciuto "The Falls", diretto dal geniale Peter Greenaway nel 1980, è stato nel campo della ricostruzione falsificata ma attendibile della Storia un esperimento di analoga portata. In quel film, Greenaway indagava sulle biografie di 92 persone colpite dall'Evento Violento Sconosciuto (scelte a caso tra i milioni di vittime del misterioso fenomeno) e, con uno stile telegiornalistico, l'uso di filmati e interviste estremamente realistici ed un originale procedimento apodittico che dava molte cose per scontate, già ampiamente di pubblico dominio, creava dal nulla una pletorica costruzione in cui era oltremodo difficile distinguere il falso dal vero e svelare la mendacia dal gioco. In "Zelig", dal canto suo, Allen restringe il campo dell'artificio, facendo ricorso a un'epoca che è ben presente nell'immaginario collettivo degli americani, l'era del jazz prima e della depressione poi, e in essa calandovi un personaggio di pura invenzione. E' nella sovrapposizione di realismo e finzione, quindi, che si esprime la sfida del regista. Già nel 1969, con "Prendi i soldi e scappa", Allen aveva fatto ricorso a inserti di documentari autentici, a finte interviste a parenti e conoscenti del protagonista e alla voce off di un cinecronista che commentava la vicenda. In "Zelig" egli va però molto più in là del suo film d'esordio, trasformando quello che era un semplice pretesto narrativo in una complessa operazione che può a buon diritto essere annoverata tra i più ingegnosi e perfetti risultati nel campo dell'estetica cinematografica, capofila di un genere assolutamente nuovo e a tutt'oggi poco esplorato.
"Zelig" stupisce innanzitutto per la perfezione dei procedimenti tecnici utilizzati. Per creare l'illusione di trovarsi di fronte ad autentico materiale d'epoca, le sequenze di fiction sono state trattate per mezzo di controtipi successivi (stampe consecutive da positivo a negativo e viceversa), in modo da allontanare progressivamente la pellicola dalla nitidezza dell'originale. In questo modo si è cercato di riprodurre con maggior fedeltà possibile la patina inconfondibile dei cinegiornali del tempo ai quali le scene reali sono continuamente mescolate. Non solo, per invecchiare ulteriormente la pellicola, per darle un aspetto usato e consumato, "abbiamo mandato – come ha ricordato lo stesso Woody Allen in un'intervista – i nostri assistenti in bagno a mettere la pellicola sotto la doccia e a calpestarla al fine di ottenere l'effetto che volevamo; abbiamo trascinato la pellicola sul terreno e ci abbiamo camminato sopra". Grazie anche al prodigioso contributo del direttore della fotografia Gordon Willis, da "Io e Annie" in avanti suo strettissimo collaboratore, Allen è riuscito a restituire le tipiche vibrazioni laterali dei fotogrammi d'epoca (dovute generalmente a problemi di umidità) e, mediante l'uso di macchine da presa a manovella, il caratteristico scorrimento a scatti della pellicola: quando, ad esempio, vediamo Eudora Fletcher entrare nell'ospedale in cui lavora, avvertiamo dei piccolissimi salti di fotogramma, assolutamente verosimili in una pellicola rovinata dal tempo.
Il ben noto perfezionismo di Woody Allen ha reso necessario l'impiego di una grande quantità di tempo: tre anni sono occorsi per l'intera realizzazione del film (iniziato ben prima di "Una commedia sexy in una notte di mezza estate"), nove mesi dei quali passati in sala di montaggio per cercare di riportare ai novanta minuti canonici le centocinquanta ore di film a disposizione; ben sei mesi (come riferisce Bill Krohn nei "Cahiers du Cinema") sono stati necessari per una sola sequenza, quella in cui vediamo Zelig che osserva in disparte, in attesa del proprio turno di battuta, il grande campione di baseball Babe Ruth in azione. In questa, come in altre circostanze, si sono adoperate persino le tecniche dell'animazione, al fine di "creare" sullo schermo le ombre proiettate da Zelig. In questo modo, il fotomontaggio (pensiamo al fotogramma statico di Zelig fra il presidente degli Stati Uniti Calvin Coolidge e il suo successore Herbert Hoover) riesce sempre a dare un'impressione sorprendente di realtà. Degli effetti speciali si è invece voluto fare un uso parco e moderato, nonostante che le condizioni della tecnica consentissero manipolazioni ben più pesanti, ciò al fine di non compromettere l'impressione di realismo documentaristico del film. Va segnalato comunque il buon uso del matte shot (un effetto speciale che si realizza in truca, sovrapponendo due immagini e facendole diventare una sola), per esempio nella scena della trasformazione di Zelig in rabbino.
Ancora più impressionante è la verosimiglianza storica che caratterizza "Zelig". Woody Allen ha saputo ricreare alla perfezione l'atmosfera frivola e spensierata degli anni '20, ritmata dalle trascinanti note del charleston, richiamando alla memoria con brevi e incisive immagini i fatti, le situazioni e i personaggi più caratterizzanti dell'epoca. In questo contesto è stato quindi calato il personaggio "falso" di Leonard Zelig, con un'operazione di mimetismo curiosamente analoga a quella che Zelig stesso mette in atto nel corso della vicenda: le sue movenze, il suo abbigliamento, i suoi movimenti leggermente accelerati lo rendono indistinguibile (e rendono parimenti indistinguibili gli altri attori "veri" del film) dai personaggi reali di quegli anni. Non si tratta comunque di una semplice, meccanica sovrapposizione della finzione alla realtà, bensì di una vera e propria interazione tra i due piani. Abbiamo già visto come per ottenere questo effetto Allen sfrutti magnificamente tutte le potenzialità offerte dal fotomontaggio. Ma è soprattutto nella capacità di dare alle scene di finzione il valore di documento storico, facendo loro assorbire lo spirito più intimo e apparentemente più inafferrabile dell'epoca, che Woody Allen si rivela un grande maestro. E' veramente difficile credere che tutto quanto sia frutto della fantasia del regista: i cinegiornali che si avvicendano nel corso del film hanno lo stesso taglio e lo stesso umorismo sorpassato dei "Pathè News" in voga allora; le voci di Zelig e della dottoressa Fletcher ci giungono gracchianti, con fastidiosi fruscii sullo sfondo, come se fossero state registrate mezzo secolo fa; il cronista che commenta la storia rievoca con voce impostata e monocorde la storia di Zelig proprio come l'abbiamo visto fare tante volte nei documentari-inchieste televisive. A tutto ciò la musica conferisce un'ulteriore, miracolosa patina di autenticità. Non parlo solo delle musiche d'epoca (come sempre perfette nell'aderire, anche attraverso il ricorso ad arie e motivetti poco conosciuti, ai diversi passaggi narrativi), ma delle canzoni originali che Dick Hyman ha composto per l'occasione: "Leonard the Lizard", "Chameleon days", "You may be six people but I love you" arieggiano con incredibile precisione le fresche ed ingenue melodie degli anni Venti, ed ascoltarle sui vecchi grammofoni a 78 giri non fa che accentuare questa impressione. "Doin' the Chameleon" è poi un vero capolavoro di "falsificazione" musicale: con questa trascinante, godibilissima canzone, Allen crea a posteriori, dal nulla, una nuova moda, quella del ballo del Camaleonte, e le coppie che si dimenano e gesticolano buffamente al ritmo delle note indiavolate di Hyman non hanno meno veridicità di quelle che ad inizio film avevamo visto ballare il charleston.
In questa inarrestabile progressione di citazioni false che sembrano più vere delle citazioni autentiche, Woody Allen giunge perfino, da grande illusionista qual è, a riprodurre alcune sequenze di un film mai girato (di cui di dà il titolo, "The changing man", l'anno di realizzazione, il 1935, e perfino la casa di produzione, la Warner Bros.): è un falso nel falso, una contraffazione di secondo grado, che induce vieppiù lo spettatore, pur consapevole della finzione, a credere nella serietà di tutta l'operazione. Ad avallare questa credenziale vengono perfino chiamati a fungere da testimoni importanti personaggi del mondo della cultura, da Saul Bellow a Susan Sontag, da Irving Howe a Bruno Bettelheim, i quali si prestano al gioco con autorevolezza e senza alcun percepibile segno di ironia. Per giunta, a Susan Sontag che ha realmente scritto un saggio dal titolo "Controinterpretazione", Allen contrappone dialetticamente lo storiografo John Morton Blum attribuendogli un'opera fittizia, "Interpretazione di Zelig", che fa quasi nascere il sospetto che Zelig sia stato realmente al centro di un acceso dibattito culturale.
Per rendere plausibile la storia di Zelig, grande cura è stata dedicata alla struttura narrativa. In "Zelig" viene adottato un procedimento a scatole cinesi (un po' come era stato fatto con "Quarto potere", suo lontano modello, col quale si apparenta anche in virtù di una lunga sequenza del cinegiornale "Hearst Metrotone News" che mostra il magnate della stampa William Hearst ospitare Zelig e la dottoressa Fletcher nella sfarzosa tenuta di San Simeon, insieme a personaggi come Charlie Chaplin, Adolphe Menjou, James Cagney, Carole Lombard e Marion Davies): partendo dalla conclusione (un corteo di auto, ali di folla festante, coriandoli e stelle filanti per festeggiare l'eroe del giorno, Leonard Zelig), il film si propone, andando a ritroso nel tempo, di raccontare la vicenda di questo strano personaggio, cercando di indagare il suo passato e di scandagliare i fatti salienti della sua vita, il tutto con il punto di vista, apparentemente oggettivo e documentaristico, di una indagine televisiva. Adottando questa particolare angolazione, Allen fornisce di un supporto verosimile l'inverosimile storia di Zelig, controlla molto bene il suo estro surreale, non eccede quasi mai nel paradossale e privilegia la satira sottile e indiretta alla parodia scoperta, salvo quando (ma siamo ormai alla fine del film) il gioco si fa palese: la trasvolata dell'Atlantico a testa in giù è la schietta risata di un regista non più in grado di frenare le risa che, fingendo di essere serio, aveva lungamente trattenute.
Più che negli altri suoi film, traspare in "Zelig" la volontà di giustificare tutti i passaggi ed i raccordi della sceneggiatura. All'inizio, quando ovviamente il materiale documentario su Zelig, non ancora assurto agli onori delle cronache, scarseggia, prevalgono i fotogrammi statici, legati tra loro solo dalla voce fuori campo del cinecronista. Solo quando Zelig si propone all'attenzione dell'opinione pubblica con le sue stupefacenti metamorfosi, e solo allora, ci viene offerta la possibilità di vedere le immagini in movimento di Allen-attore o di ascoltare, incisa su un disco gracchiante, la sua voce. Per avere credibilmente insieme le due cose (immagine in movimento + voce), Allen escogita uno stratagemma: le "sedute della Camera Chiara", ovverossia degli incontri psicanalitici filmati di nascosto dal cugino della dottoressa Fletcher. Ma laddove le cineprese non potevano in maniera attendibile essere vicine alla scena, Allen non ha rinunciato per questo al suo punto di vista documentario: quando Zelig si intrufola nel seguito del Papa, da Piazza San Pietro si scorgono solamente le silhouette del Pontefice e degli altri porporati che si agitano e si dibattono in lontananza, perché non era pensabile che una scena simile venisse ripresa in primo piano o in campo medio. Altrove, quando non può ragionevolmente utilizzare sequenze di celebrazioni, comizi o feste con personaggi celebri, Allen riesce ugualmente ad uscire dal possibile impasse con brillanti trovate che non minano il criterio della verosimiglianza: una di queste è il cinegiornale tedesco dell'UFA, spacciato come rarissimo reperto cinematografico, che testimonia le fasi salienti della fuga di Leonard ed Eudora dai nazisti. In altre circostanze, come il matrimonio finale, sono i super-8 girati dagli stessi personaggi del film a fornire il necessario supporto filmato. Un paio di sequenze, che ritraggono Zelig e la dottoressa Fletcher in atteggiamenti strettamente privati (ad esempio, Eudora nel night-club con il fidanzato Koslow), sembrano contraddire questa rigorosa verosimiglianza documentaria. Quelle che sembrano delle vere e proprie incongruenze linguistiche, risultano però ad un'analisi più approfondita estremamente funzionali a un discorso problematico sui mass media, poiché suggeriscono l'idea della loro onnipresenza e onniveggenza, che non si ferma neppure di fronte all'intimità.
Quanto detto più sopra a proposito della struttura narrativa, ci spinge ad affrontare il problema della comicità in "Zelig". La comicità tipicamente verbale, logorroica, di stand-up comedian di Woody Allen è, come abbiamo visto, messa giocoforza da parte: Allen parla poco, anzi pochissimo, nel film anche se non mancano battute molto gustose (ne cito una per tutte: "Ho lavorato con Freud, a Vienna. Poi però io e lui ci siamo guastati per via dell'invidia del pene. Secondo Freud, ce l'avrebbero solo le donne"). Non si può neppure parlare di una comicità prevalentemente fisica: Allen non è mai stato del resto un grande comico "fisico", al contrario di Chaplin o Buster Keaton o Harpo Marx. Quella di "Zelig" è una comicità del tutto diversa, che nasce dal contrasto nettissimo tra la seriosità dell'assunto (l'inchiesta giornalistica) e la bizzarria delle situazioni. Prendiamo ad esempio l'immagine di Zelig che, dopo essere stato sottoposto a un trattamento medico alquanto rude, se ne sta seduto sul lettino con le gambe rigirate al contrario, circondato da infermiere sorridenti in posa davanti al fotografo: qui la verosimile naturalezza della cornice (le infermiere sorridenti) contrasta con l'anormalità del quadro centrale (Zelig con le gambe al contrario) e da questo contrappunto deriva il lato comico della scena. Un secondo esempio (ma se ne potrebbero fare decine) è quello dell'intervista alla madre di Eudora, nella quale alle domande scontate e banali dell'intervistatore, che presuppongono risposte dello stesso tenore, si contrappongono invece le repliche anticonvenzionali della donna, le quali creano un anti-climax molto divertente. Si tratta, è ovvio, di una comicità "in minore", apparentemente involontaria, mai enfatizzata, alla quale sono quanto mai congeniali il distacco cronachistico, la pseudo-verità delle immagini e delle registrazioni sonore e la stessa lontananza dall'azione della macchina da presa (vedi la scena in cui Zelig prende a rastrellate i dottori davanti alla villetta di campagna della dottoressa Fletcher, ripresa in campo lungo). Woody Allen con questo film prende definitivamente le distanze e scava un solco profondissimo nei confronti della comicità grossolana imperante in questi ultimi anni, tutta tesa a cercare la risata facile attraverso la dozzinalità dei doppi sensi verbali o l'accentuazione del lato iperbolico del gag (in Italia, un modello di quest'ultimo filone comico è Paolo Villaggio), ma anche rispetto alla comicità più intelligente e sofisticata della slapstick comedy di antica data (pensiamo ad esempio al diverso esito che avrebbe avuto il gag delle gambe girate al contrario in un film di Laurel e Hardy).
"Zelig" non sarebbe però il capolavoro che realmente è se limitasse le proprie ambizioni alle innovazioni squisitamente tecniche o alle ricerche di una nuova via alla comicità. C'è una frase di Saul Bellow in apertura di film che, pur riferendosi al personaggio-Zelig, calza molto bene, come epigramma a futura memoria, anche al film-Zelig: "Risultò, s'intende, molto buffo e divertente, ma al tempo stesso toccò sul vivo i contemporanei. Forse… come dire? Forse li toccò là dove avrebbero preferito non venir toccati". In effetti, "Zelig" è anche (o soprattutto) la parabola agrodolce di un uomo il quale rispecchia metaforicamente l'intera condizione umana e inoltre è inequivocabilmente nostro contemporaneo ("Ma, mi chiedo, è poi tanto cambiata, da allora, l'America?", fa dire Allen a Irving Howe al termine del film). L'omino che si trasforma fisicamente e psicologicamente nelle persone con cui entra in contatto (nero tra i neri, cinese tra i cinesi, dottore tra i dottori) è l'emblema stesso della malattia dell'uomo moderno, il conformismo. A costringerlo a trasformarsi in continuazione, proteiforme come l'Uomo di fiducia melvilliano, è, come ben intuisce la sensibile dottoressa Fletcher, l'assillo di essere amato ed accettato dagli altri, e nel contempo il desiderio di rendersi invisibile e mimetizzarsi nella massa. Si tratta probabilmente, tra tutte le angosce dell'uomo moderno, di quella più comune e diffusa, tanto è vero che molti fenomeni, come quello della pubblicità, si fondano proprio sull'asservimento dell'uomo medio al bisogno di identificazione con modelli di vita universalmente accettati, nei quali riconoscersi ed annullarsi. Il conformismo allo stato puro nasce quindi da un naturale bisogno di interazione con l'ambiente circostante ma nei risultati ultimi porta all'annullamento, all'azzeramento della personalità, e difatti Zelig, al culmine del suo camaleontismo patologico, diventa un non-uomo, un fenomeno da baraccone. Curiosamente, se Zelig è indotto dalla sua malattia congenita a imitare gli altri, la propaganda trascina gli altri ad imitare Zelig, in una spirale perversa e schizofrenica in cui può ravvisarsi una acre satira del consumismo moderno.
Intenti polemici o moralizzatori a parte, è chiaro che Zelig è l'uomo comune, l'uomo della strada, i cui stereotipi e le cui manie, per poter assurgere a simbolo universale, devono venire ingigantite, esagerate. E' lo stesso procedimento, per fare un esempio di matrice letteraria, de "La metamorfosi" di Franz Kafka, il quale per descrivere la straziante alienazione dell'uomo moderno ha trasformato Gregor Samsa in uno scarafaggio, pur facendo rimanere la trovata surreale in un ambito di narrazione eminentemente realistico. La dimensione sotterraneamente tragica dell'opera kafkiana è presente, nonostante il consolatorio lieto fine, anche nel film di Woody Allen, e forse non è un caso che una fotografia di Leonard da ragazzo lo mostri vestito di nero con la bombetta in testa, straordinariamente simile a un ritratto del grande scrittore praghese.
Woody Allen va comunque ben oltre l'interpretazione meramente esistenziale della vicenda, e dimostra, come un teorema logico e inoppugnabile, che il conformismo conduce inevitabilmente al fascismo. E' Saul Bellow, colui che più degli altri autorevoli testimoni sembra incarnare il punto di vista del regista, a spiegare la cosa: "Se da una parte, è vero, Zelig voleva piacere… voleva essere amato… c'era anche, in lui, qualcosa che desiderava di smarrirsi nella massa amorfa, di immergersi nell'anonimato. E il nazifascismo offriva a Zelig proprio questa opportunità: l'occasione di rendersi anonimo al massimo, inserendosi in quel vasto movimento di massa". Se la vista del volto smarrito di Zelig dietro al palco dove il Führer sta pronunciando un farneticante discorso muove istintivamente al riso, pure c'è un sottofondo angosciante e terribile nella sorte di questo ometto, suggestionato e ipnotizzato dall'ideologia fascista più di quanto fosse riuscita a fare la dottoressa Fletcher con la psicanalisi. E' come se si avvertisse subliminalmente la sensazione che il fascismo non potrà mai essere definitivamente estirpato, perché se il film mostra da un lato come l'uomo comune, impregnato di ortodossia e di conformismo, può essere facile preda del fascismo, dall'altro lato fa vedere come il fascismo sia tuttora incubato nelle società cosiddette democratiche, ad esempio nelle vesti della vecchietta moralista e bigotta che, in nome di un'esigenza di pulizia morale e di salvaguardia dei costumi, incita alla radio: "Linciate l'ebreo!". "Zelig" è perciò un'opera di aspra denuncia sociale e non una favoletta con un comodo e tranquillizzante lieto fine.
Se il film è indiscutibilmente polisenso, e può dare adito a diverse legittime interpretazioni, mi pare di poter tuttavia dire che il suo interesse principale non consiste nel cercare di capire cosa simboleggia la figura del protagonista (oltretutto la spiegazione ce la dà molto presto lo stesso Zelig quando, in stato di trance, confessa di voler essere come gli altri, di voler essere amato dagli altri), e neppure nel chiedersi se Zelig verrà o no guarito dalla premurosa ed amorevole dottoressa. "Quello che mi interessava di un personaggio come Zelig – ha riferito Allen in una intervista – non era tanto raccontarne la vita privata, quanto l'impatto sulla società americana. Mostrarlo come fenomeno culturale alle prese con i mass media". E' quindi in un secondo livello di lettura che bisogna cercare il senso più profondo del film, e precisamente nell'analisi del rapporto con i mass media da una parte, e nella critica della società contemporanea dall'altra.
L'itinerario di Zelig, che passa in breve tempo dall'anonimato alla celebrità, per poi ricadere nell'oblio e assurgere infine di nuovo al rango di eroe nazionale, rispecchia fedelmente le spregiudicate regole dei mass media, affamati di notizie clamorose, pronti a gonfiare i fatti al di là della loro reale rilevanza intrinseca, ma disposti ad abbandonarli con altrettanta velocità e farli cadere nell'oblio non appena l'interesse del pubblico mostra qualche segnale di affievolimento. A far diventare Zelig un fenomeno da baraccone non è tanto il calcolo opportunistico della subdola sorellastra, che lo sottrae alle cure dell'ospedale, quanto il cinico interessamento dei media, nel nome di un sensazionalismo da perseguire ad ogni costo. E siccome "quando un uomo muta aspetto fisico, lo si vuole vedere, non basta leggerne" (sono le parole che la stessa Eudora Fletcher dice al cugino Paul Deghuee), Allen preconizza con le "sedute della Camera Chiara" il passaggio del potere di persuasione dalla carta stampata e dalla radio alla televisione. Il resto è storia dei nostri giorni.
Per quanto riguarda il secondo aspetto, quello della critica sociale (già in parte esaminato parlando del fascismo quotidiano), Woody Allen non manca di lanciare frecciate di veleno contro l'ottusità della scienza medica (c'è un vasto campionario di cattiverie nei confronti dei medici, già crudelmente presi in giro in altri film, da "Bananas" a "Commedia sexy", fino alla significativa morte del dottore per mano del mostro in "Ombre e nebbia"), la vacuità degli intellettuali ("I freudiani ci andavano a nozze, con lui. Potevano interpretarlo come gli pareva. Era tutto simbolico, sì, ma non c'erano due intellettuali che si trovassero d'accordo fra loro sul significato da dargli") e l'inutilità della religione ("Ho dodici anni. Vado alla sinagoga. Chiedo al rabbino qual è il significato della vita. Lui mi dice qual è il significato della vita. Ma me lo dice in ebraico. Io non lo capisco, l'ebraico. Lui mi chiede 600 dollari per darmi lezioni di ebraico"). Oppresso fin da bambino da una violenza cieca e immotivata, comica e tragica nel medesimo tempo, Zelig è una patetica vittima della società. Quando cerca di farsi accettare dagli altri con le sue stravaganti trovate, gli altri (il servizio d'ordine del campo di baseball, il seguito del Papa) reagiscono veementemente e con aggressività, cacciando in malo modo l'intruso. E' una società a compartimenti stagni, rigidamente divisa in gruppi, ceti e clan, che non ammettono alcuna osmosi reciproca e risultano praticamente impenetrabili dall'esterno. Non c'è tuttavia alcuna traccia di manicheismo nel film di Woody Allen, e tantomeno un moralismo di segno contrario a quello della spregevole morale corrente, ad onta di quelli che considerano "Zelig" un apologo etico abbastanza semplicistico. Perfino della psicanalisi, nonostante le apparenze, non si fa mai un'esaltazione preconcetta (quanto siamo lontani, per esempio, dal pabstiano "I misteri di un'anima"), tanto è vero che Allen fa salvare Zelig dai nazisti proprio grazie a un'ultima ricaduta nella sua malattia. Rovesciando l'insopportabile ottimismo delle autorità che lo festeggiano, Zelig dice della sua impresa: "Questo dimostra quante cose riesci a fare quando sei completamente psicotico". Una completa normalità forse non è del tutto auspicabile né salutare, e, a dispetto di tutte le apparenze, un po' di psicosi è addirittura necessaria. Del resto, chissà quante altre sfaccettature e quanti altri significati si nascondono, paradossali e inaspettati, nel personaggio di questo schlemiel perseguitato dal destino e dalla società. In fondo, come ha scritto Shakespeare ("Come vi piace", atto II, scena VII), "Il mondo è un palcoscenico; / Semplici attori, gli uomini e le donne, / Che escono ed entrano a comando, / E molte parti in vita sua ricopre / Un solo uomo".