caratteri piccoli caratteri medi caratteri grandi Chiudi finestra

GAS regia di Luciano Melchionna

Nascondi tutte le risposte
Visualizza tutte le risposte
giovanni franci     8 / 10  24/06/2005 02:42:36Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
"l'ho picchiato, l'ho massacrato, perché? Perché m'ha guardato. ***** guardi!"
Ha inizio così la rabbiosa opera prima, l'esordio italiano più convincente degli ultimi anni, di Luciano Melchionna, autore, attore e regista teatrale dalle molteplici qualità visionarie che approda al cinema ed al pubblico cinematografico con un sincero ed incazzato "***** guardi?". In effetti non c'è niente da vedere, perché è del "niente" che il film parla, la parola "niente" è ,infatti, ripetuta infinite volte nel film. E allora dobbiamo chiederci cosa stiamo guardando, una rappresentazione del niente? Forse, forse è proprio quella rappresentazione/finzione, resa esplicita dagli sguardi in macchina dei personaggi schiacciati su un fondo nero che chiedono il sangue, l'umiliazione, che propongono un'isola lager per gli emarginati, che raccontano i propri deliri tossici, rappresentazione/finzione resa esplicita da una scritta "intervallo" che ci imbarazza e ci fa perdere le coordinate di spettatori chiamati in causa, non a giudicare la fotografia, gli attori o la regia, come avviene ai due spettatori del film [che non sappiamo che film stessero vedendo e le ipotesi che si aprono sono molteplici e divertenti], ma a capire cosa stessimo vedendo, "che ***** stavamo guardando?". Niente. [la risposta]
E noi [pubblico] chi siamo? Siamo guardoni come l'uomo sequestrato davanti al sexy shop e seviziato nel bunker? O come la vecchia dai piedi gonfi del piano di sopra che esce dalla sua casa/tana solo per il gusto di "odorare un po’ di *****"?
Qui è la forza del film, la capacità di stimolare e coinvolgere il pubblico in molteplici situazioni, attraverso una regia fluida e "piano-sequenzosa" negli ambienti esterni, immersi in un'aria di gas, delicata e pericolosa come quella di vetro montaliania, rapida e virtuosa nel bunker, accelerata dalla cocaina e dalla disperata voglia di esercitare il dolore.
Alla fine è proprio questa forza e questa voglia di comunicare che riescono a superare l'eccessivo simbolismo di alcune situazioni [ il ragazzo imbalsamato come la figura di un padre famoso, il garzone dell'obitorio, la bambolina tra le mani di una ragazza mai cresciuta, il protagonista affetto dal male oscuro della depressione che cerca di uscire da una condizione borghese aprioristica che gli impedisce di vivere serenamente la propria sessualità].
Forse questo modo "eccessivo" di raccontare il niente, toglie efficacia al "niente" che racconta, ma GAS è impulsivo, questa eccessiva "voglia di dire", di sbattere in faccia la realtà delle cose attraverso personaggi e situazioni che appartengono, spesso, più al paradosso [l'origine teatrale della pellicola si fa sentire, ma non nuoce], che alla realtà, sono la caratteristica di un film di grande personalità e stile [che fa esplicitamente riferimento a Kubrick, Von Trier, Clark e Guediguian] , uno stile ed una personalità che desiderano e riescono ad imporsi su un panorama cinematografico [quello nostrano], sciatto e quasi sempre inutile.
Forse è proprio questo che ha preoccupato la nostra bigottissima censura?
Che ha imposto il divieto ai 18, dopo una supervisione del film consumata tra un supplì ed una telefonata [parole testuali di chi era presente].
Le musiche sono come un vestito di lattice nero che il film indossa a pennello, la fotografia è livida e spenta come il corpo nudo sul letto d'acciaio gelato di un obitorio, il GAS è dolce e amniotico come l'alito della persona amata, pericoloso come un guasto che non viene curato, opprimente come l'aria di provincia. Il film è finito, andiamo in pace.