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STILL ALICE regia di Richard Glatzer, Wash Westmoreland

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pier91     7½ / 10  22/02/2015 17:37:29Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
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La mia fissa per i titoli potrebbe diventare molesta, o peggio proverbiale, ma tant'è, anche stavolta devo cedere alla tentazione. Ho scoperto di recente la storia dell'espressione "still life", il cui corrispettivo italiano suona piuttosto funereo, anzi antipatico (ce l'hanno imboccato i francesi): natura morta. Pare che i primi a definire tale genere pittorico siano stati gli olandesi, che usarono a tal scopo una bella combo di parole: "stil" e "leven". "Stilleven": vita silenziosa, vita immobile. Da cui il tedesco "stilleben" e l'inglese "still life". Questa pippa didattica solo per dire che il titolo "Still Alice" non si presta ad un'immediata lettura. Ancora Alice, pur sempre Alice; Alice inerte, Alice senza parole.
Vorrei concentrarmi solo sulla scena che con garbo, soprattutto pregnanza, chiude il racconto. Lydia legge alla madre un passo da "Angels of America", poi le chiede di che cosa parli. Alice versa ormai in uno stato semicatatonico e parla a stento, riesce appena a bisbigliare la risposta: "amore". Non credo che Alice si riferisca al monologo in sé, per quanto allusivo, o alla raffinatezza linguistica che un tempo, sì, avrebbe ammirato. "Amore" è piuttosto il gesto di condivisione da parte di Lydia. La più piccola, la più libera, la meno allineata dei tre figli. L'unica che resta, l'unica che incrina, senza certo dissolverla, l' inevitabile solitudine della malattia. Il mancato suicidio di Alice non ha forse altro senso che questo: vedersi concesso, prima della dispersione definitiva, il privilegio di sentirsi ancora accettata e amata. Proprio da chi, paradossalmente, non ha saputo amare.