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IL RACCONTO DEI RACCONTI (2015) regia di Matteo Garrone

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Terry Malloy     8 / 10  28/05/2015 15:42:01Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Nell'epoca di GOT, magistrale serie televisiva sul potere, accattivante storia infinita piena di humor, violenza, sesso, distopia e gioco delle parti, un film fiabesco e narrativamente piatto come "Il racconto dei racconti" rischia di annoiare. Lungo, lento, spesso insistente nell'osservare il nulla, tendente a una dimensione ritualistica, canonica della lettura, del piacere di narrare per il piacere di ascoltare-in-mancanza-d'altro, della ossessività infantile dei libri divorati milioni di volte da piccoli (lo stesso pentamerone basiliano è destinato a questo pubblico) - a me è venuto in mente, grazie a un ottimo suggerimento, la raccolta di fiabe italiane di Gozzano, libro stranissimo e inquietante come le storie di Basile qui rivisitate -, senza nessuna logica vediamo il dipanarsi di questo film. Attendiamo, come attenderemmo per GOT, che tutte queste storie si intreccino tra loro in una dimensione che le dia significato. E invece tutto termina con una sorta di "... e vissero", un matrimonio. Credo che il punto di forza del film stia proprio in questa antinarratività, che a volte affascina, a volte annoia. Ma non si ha mai l'impressione di essere davanti a un film stupido, o insipido. E' un modo diverso di fare cinema. Specie nel Paese, concedetemi un po' di prospettiva contestualista. Ho dunque, come in ogni libro di racconti che si rispetti, preferito alcune linee ad altre, alcune interpretazioni ad altre (penso a quel fantastico Toby Jones), alcuni mostri ad altri. Innegabile che l'ambientazione federiciana della storia della fanciulla e dell'orco - e del suo papà che da quando è morta mamma è sempre più strano - raggiunga vette di inaspettato stupore. Eco kafkiane, eco di tutta una serie di tradizioni romanzesche che si riassumono nell'incantevole personaggio di Viola, un po' calviniano (postmodernismo), un po' cavalleresco, nella illusione perduta della fanciulla in fiore che si è letta troppi romanzi (tema tipico dal romanzo di corte in poi, passando per la Nouvelle Heloise e l'invenzione richardsoniana, fino a toccare nevralgicamente l'Educazione Sentimentale, l'amore di Swann e Odette, quello tra Angiolina ed Emilio in "Senilità" e poi tutta una tradizione novecentesca che si interroga sull'opportunità della lettura romantica nell'età dell'individualismo e delle follie, e che giunge alle riscoperte per l'appunto calviniane). Garrone ha dunque il merito già riconosciuto di riattizzare un immaginario, più che di creare una storia innovativa e un narrare accattivante la cui prerogativa il medium seriale ha già ampiamente sottratto al cinema. Lo fa riesumando un capolavoro che finora solo l'Accademia ha notato e amato. Eppure ci immergiamo con semplicità e leggerezza, ma anche con appassionante terrore, in mondi che non esistono più, mondi popolari e di corte, un fiabesco che come tutti i popoli abbiamo, ma che il soffocante grigiore del cinema italiano, sempre in lotta con se stesso, ha dimenticato di tenere in considerazione. D'altronde lamentava Tomasi di Lampedusa che dello spirito delle corti quattro-cinquecentesche è rimasto solo un trattatello paludato e noioso come "Il cortegiano" di Castiglione. Il cinema, lavorando a fianco di storici competenti (e pagati come meriterebbero), potrebbe colmare questa lacuna.