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GIGI regia di Vincente Minnelli

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Dom Cobb     5 / 10  30/11/2018 18:52:40Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Nella Parigi della Belle Epoque, una giovane ragazza cerca in ogni modo di opporsi all'educazione triviale offertale dalla nonna e dalla zia, secondo le quali l'amore è soltanto un mezzo di scalata sociale ed economica. La ragazza, soprannominata Gigi, finisce per innamorarsi di un giovanotto ricco e annoiato...
Mi pare di aver già parlato in precedenza di quel secondo ramo del musical che si è venuto a creare al cinema nel corso del suo periodo d'oro: a differenza degli exploit di Gene Kelly, questo si contraddistingue per le sue radici nel teatro di Broadway, nella sua impostazione spettacolare e nella sua immensa opulenza. "Gigi" fa parte senz'altro di quest'ultimo filone, e neanche a dirlo anche questo si basa su un pezzo della popolare coppia di autori Alan Jay Lerner, qui anche nel ruolo di sceneggiatore, e Frederick Loewe, a sua volta tratto da un pezzo di letteratura francese.
Se già "Il re ed io" rappresentava un pessimo punto di partenza, non è che qui le cose vadano tanto meglio, e lentamente mi sorge il sospetto se per caso non si tratti solo di un problema di gusti personali: come al solito è il lato tecnico a dominare su tutto il resto, fra scenografie e costumi come sempre magnifici ed eleganti, una fotografia sgargiante e colorata e uno stile visivo che, se non altro, rende il prodotto una gioia per gli occhi.


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Una volta appurato questo, però, mi sorge spontanea una domanda: perché mai riversare tanto ovvio talento e impegno per adornare una storia priva di importanza o interesse alcuno, quello che alla fine non è altro che il solito, prevedibile tira e molla fra il maschio e la femmina della coppia, che già tutti sanno dove andrà a parare e per di più ci mette un'eternità per sviluppare uno qualsiasi dei suoi snodi narrativi? La vicenda, annegata in un mare di sentimentalismo e melodrammaticità, è materiale da fotoromanzo o da soap opera, così come i personaggi che lo popolano, e né gli uni, né gli altri vengono aiutati dalla regia di Vincente Minnelli, che ancora una volta si conferma uno dei mestieranti più privi di energia della Hollywood dei tempi d'oro.


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Le musiche continuano ad essere terribilmente anonime e qualsiasi talento da parte degli attori è quasi del tutto sprecato, ciascuno costretto in un ruolo che non gli da niente con cui lavorare.
Quasi. Perché vi è un elemento nel film capace di iniettare un'indispensabile e salvifica dose di vivacità nello sviluppo narrativo e che puntualmente riesce ad alleggerire le atmosfere all'acqua di rose offrendo una sana dose di sardonica, divertita autoironia. Quell'elemento si chiama Maurice Chevailer, anfitrione e osservatore da dietro le quinte di tutta la vicenda: agghindato in quei costumi, con quel cartoonesco cilindro e la perenne aria sorniona, Chevalier è una sorta di simpatico nonno ancora in possesso di una certa vitalità giovanile, quasi una versione in carne ed ossa di George l'avvocato de "Gli Aristogatti": ogni sua apparizione è un autentico salvagente dalla dilagante noia. Così dirompente è la sua energia da riuscire in certe occasioni a contagiare anche altri membri del cast, come succede a Louis Jourdan nelle sue prime scene.


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Grazie a Chevalier, il film riesce a raggiungere quanto meno dei livelli di tollerabilità che rendono la visione meno pedante, ma non basta purtroppo a fargli raggiungere la sufficienza. Con buona pace degli estimatori, "Gigi" è tutto fumo e niente arrosto, dove la tecnica curata e l'aspetto visivo sono solo uno specchio per le allodole per nascondere il vuoto e l'inutilità di una storia e di personaggi inesistenti.