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LUCI D'INVERNO regia di Ingmar Bergman

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amterme63     8 / 10  02/12/2010 22:42:17Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Per apprezzare questo film occorre avere interesse e passione per la filosofia, la religione, l'etica e in generale per tutto quello che viene pensato a proposito dell'esistenza umana vista nel suo complesso.
Se non si ha questo interesse allora il film è semplicemente una tortura, un assurdo, un nonsenso pesante e noioso. Se si è interessati allora non si può fare a meno di apprezzare la grande finezza di pensiero espresso, la complessità e l'universalità dei temi, la sincerità e la passione umana e la grande arte scenica e recitativa. Se i temi filosofico-spirituali piaccono, si viene letteralmente presi nel vortice dei pensieri e non si può fare a meno di immedesimarsi, di riflettere, di trarre le proprie conclusioni.
Qualcosa però è andato perso. Noi viviamo in un'epoca ormai completamente scettica, permeata fino al midollo di etica materialista ed economica; non possiamo capire il pathos del film, di quell'epoca. Allora (negli anni '60) il vecchio mondo etico (simboleggiato da Dìo) viveva le ultime convulsioni prima di cedere definitivamente al nuovo mondo edonistico (simboleggiato dal Consumo). Bergman ha saputo egregiamente ritrarre la crisi irreparabile di chi aveva un fede e piano piano la stava perdendo.
Non si può fare a meno di confrontare questo film con il "Diario di un curato di campagna" di Bresson/Bernanos. Entrambi sono film austeri, poveri, disadorni, concentrati. I protagonisti sono dei sacerdoti, figure lacerate, fisicamente e spiritualmente tormentate. Eppure c'è una profonda differenza. Il Curato di Bresson si tormenta per non essere all'altezza, per non riuscire a compiere a dovere il suo magistero, ma mai (se non in punto di morte) dubita della propria fede e dell'esistenza di Dio. Il Pastore di "Luci d'Inverno" va invece oltre e arriva a dubitare di tutto e disperato cerca una conferma, un segno che lo sollevi dal vuoto che sente dentro. Il risultato è un'impasse totale, un vano sforzo che lo porta all'inaridimento, alla chiusura, al rifiuto pratico della vita.
Il film segue una linea molto abile e studiata. Il primo quarto d'ora è un quadro positivo e quasi poetico di una funzione religiosa. Si parte da una situazione apparentemente positiva. Poi piano piano, con un'incedere costante e sempre più intenso e interiormente drammatico, dall'armonia si passa al dolore intensissimo. Gunnar Bjornstrand ha sempre interpretato egregiamente parti brillanti, qui mi ha lasciato a bocca aperta dalla perfezione e dall'intensità drammatica che è riuscito a dare al Pastore. Ingrid Thulin, anche lei, che brava, mamma mia! Che magnifico ritratto di una donna modesta, senza pretese, tutta presa dalla sua idea di amore totale verso una persona, così intenso e partecipato da diventare ossessivo, asfissiante, così forte e totale da superare anche le peggiori umiliazioni.
Bergman ha voluto probabilmente di nuovo riflettere sulla figura del proprio padre, ha voluto capire e interpretare il suo distacco, la sua durezza. Lo spunto del padre lo ha portato all'approdo del dubbio, del "silenzio di Dìo". Del resto il film giustamente ricorda che persino Ge.sù nel momento cruciale ha dubitato: "Padre, perché mi hai abbandonato?".
In questo film inoltre si vuole persino mettere in dubbio l'assunto che Dìo esiste grazie all'amore che doniamo agli altri (la conclusione di "Come in uno specchio"). Un personaggio dileggia questa idea. Del resto il personaggio della Thulin sta lì a dimostrare che anche l'amore va saputo dare e soprattutto bisogna essere in grado di riceverlo.
Il finale è ambiguo e interlocutorio. Si lascia lo spettatore senza conclusione. Il pastore sembra voler continuare nonostante tutto, una forza disperante lo fa continuare, del resto "bisogna vivere".
Però quanta pena e quanta amarezza lascia dentro questo magnifico film!
Ciumi  11/12/2010 12:30:44Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Luca, è un po’ che non ti rompo le balle!

Questo, tra i suoi, è il film che preferiva lo stesso Bergman. E io credo sia il più “perfetto” per essenzialità, non ha nulla di troppo, il film dove meglio s’incontrano i due mondi chiesa-teatro, pietrificati insieme in una metafora splendida, agghiacciante. E’ anche il film dove forse diventa imperativa la religione bergmaniana dell’amore umano, terreno, quella che la donna propone al pastore, a cui l’autore giunge dopo non pochi patimenti, non senza il dubbio, infreddolito e sofferente.
Poi, quanto si è lontani dalla simbologia enfatica del “Settimo sigillo”… Sì, anche secondo me nella severità del verbo di questo film c’è l’eco della voce del padre.

amterme63  11/12/2010 18:45:11Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Ma a me fa tantissimo piacere se mi "rompi le balle". Fallo più spesso mi raccomando.
Mi rendo conto di dare forse dei voti troppo bassi a questo tipo di film intensissimi e pieni di spunti di riflessione, ma a forza di bazzicare filmscoop mi sono reso conto che ci sono altri punti di vista più "leggeri" che vogliono la loro parte in giudizi completi e spassionati (che cerco sempre di dare). "Il settimo sigillo" è più completo anche se non è più profondo. Comunque queste sono questioni di lana caprina. Sono entrambi film bellissimi, fondamentali.
A proposito di film fondamentali. Hai visto "Diario di un curato di campagna" di Bresson? Fallo, perché oltre ad essere un film bellissimo e che ti lascia una traccia indelebile, è una pietra di paragone per giudicare tutti i film "spirituali". Vedrai che non te ne pentirai.
Ciumi  12/12/2010 13:35:11Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Ma Luca, io al “voto troppo basso” nemmeno avevo fatto caso. Il settimo sigillo è uno dei miei film preferiti.
Riguardo al “curato”, beh, lo vidi davvero molto tempo fa, bellissimo. Però alla “traccia indelebile” mi sa che dovrò dare una ripassatina, quasi me lo sono scordato. Io lo rivedrò ma tu in cambio mi devi vedere “Un condannato a morte è fuggito” eh.
Ciao.