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LA SPOSA CADAVERE regia di Tim Burton, Mike Johnson

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Invia una mail all'autore del commento jane eyre     7 / 10  13/11/2005 20:52:23 » Rispondi
Non conosco a fondo la produzione di T. Burton, ma azzardando un pò, mi sorge il dubbio se considerare o no questa rappresentazione (seppur giocosa) del mondo dei defunti un ennesimo tentativo del regista per rendere più “digeribile” l’inquietante e invisibile presenza della morte: familiarizzarla attraverso lo strumento d’un riso sfrenato, funzionale a schermire ciò che nel contempo schernisce con leggerezza.
Nel film si assiste al paradosso di una messa in scena “carnevalesca” di un al di là fortemente simile ad una girandola impazzita di suoni e colori, vivificando l’estraneo, l’inconoscibile (la Morte) nel tentativo di dominarlo e farlo proprio. Forse sono le paure dell’autore ad essere spesso al centro della sua stessa produzione, paure anzi di un’umanità intera che da millenni tenta di dare forma a quell’Alterità inconoscibile, non solo per esorcizzarne il terrore ad essa coseguente, ma anche per ricordare agli uomini stessi di essere destinati tutti, in quanto figli del tempo, ad un ineluttabile destino comune. Si gioca con paure ancestrali e Burton lo fa con intelligenza. Il modo di mettere in scena comicamente il mondo dei defunti richiama appunto la tradizione del carnevale che univa il riso alla rappresentazione di maschere mortuarie. Mi ricorda anche il Trimalcione di Petronio che si fa beffe della morte e della propria fragile (di tutti) natura di uomo coll’imbandire il suo opulento banchetto senza dimenticare di decorarlo con teschi e scheletri, trasformando così il luogo deputato al nutrimento e alla vita a luogo di riflessione e di coscienza tragicomica.
La sposa cadavere sarà una fiaba sgangherata, e forse, come ha detto qualcuno, non proprio rispondente ai canoni della fiaba classica, ma vi aderisce completamente quando decide di fare i conti con l’al di là e con l’ancestrale presenza della Morte, così onnipresente nei racconti popolari d’ogni tempo, anche se spesso camuffata dietro molteplici simboli come ad es. quello ricorrente del bosco (presente immancabilmente anche in questa storia).
La stessa idea di mettere in scena morti e vivi “mescolati” in un solo spazio scenico mi fa pensare a quell’unicum che lega indissolubilmente i morti coi vivi, giocando su un’ambiguità di fondo: chi è vivo non necessariamente è più vivo-vitale d’un morto, e chi è morto non necessariamente è più (s)morto d’un vivo. M’ha ricordato un racconto di Joyce, intitolato appunto “I morti”, dove, paradossalmente, i vivi s’accorgono di poter sopravvivere e andare avanti nella loro ormai sterile esistenza solo ricordandosi di quei morti che un tempo fecero loro battere il cuore, ritrovando, attraverso la memoria dei defunti, quella vitalità paradossalmente assente nell’incomunicabilità regnante tra gli ingrigiti esseri umani.
Su questo paradosso gioca anche il film in questione dove sembra esservi, nella continuità tra vivi e morti (pensiamo alla vecchietta che ritrova lo scheletro danzante del suo antico marito a lei così caro!), più comunicazione e affetto che nella tetra e obbligata convivenza tra i vivi (pensiamo ai tristi genitori degli sposi!) incapaci di trasformare “forzate convivenze di corpi” in comunione di “spiriti”… e allora?
Solo nel regno dei morti sembra potersi realizzare un sogno di bizzarra felicità esente dalle meschinità umane; solo mantenendo acceso il sottile filo della ricordanza e degli affetti più cari il limite Ultimo e invalicabile, che separa i morti dai vivi, potrà essere, infine, abbattuto.
Eppure…eppure alla fin fine, qualcosa di irrisolto nell coscienza autoriale forse permane, e la necessità di mettere in scena continuamente il confronto (allegro, scanzonato?) con la morte, col lugubre, di tanto in tanto, torna a farsi sentire …
Staremo a vedere…